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Ma sul piano più generale dei rapporti economici e sociali? Dice qualcosa sul tema il nostro Kafka? La testimonianza diretta di G. Janouch vale più di mille congetture: “Il capitalismo è un sistema di dipendenze che vanno dal di dentro al di fuori, dal di fuori al di dentro, dall’alto al basso e dal basso all’alto. Non c’è cosa che non sia concatenata e dipendente. Il capitalismo è una situazione del mondo e dell’anima”[1] che fagocita tutto e tutti, finanche “l’uomo grasso in cilindro”[2] tanto caro a George Grosz. Che il Nostro avesse letto il Libro I del Capitale o il Capitolo VI inedito? Scherzi a parte, la condanna del capitalismo è qui senza appello come lo è quella del taylorismo identificato come il male assoluto perché “la parte più sublime e meno tangibile della creazione, cioè il tempo, viene costretto nella rete di impuri interessi commerciali”[3]. Eppure questa orribile maledizione solo da lì a poco si sarebbe abbattuta sulle fabbriche della Mitteleuropa! Che fare, dunque? Come in Russia dove “il popolo tenta di costruire un mondo di perfetta giustizia”[4]? Ma in Russia la rivoluzione è già morta e se non è morta, “evapora e non rimane che il limo di una nuova burocrazia”[5]. Perciò? Non dire niente, soltanto “gridare, balbettare, ansimare”[6]? A fronte di questa lucidità, veramente Kafka niente capiva di politica?[7] Nel campo la curiosità non gli manca. Ad esempio sa che Gorkij ha scritto qualcosa su Lenin, sorride sornione degli amici anarchici, “persone molto care e allegre” per pensare “che possano essere davvero quei distruttori del mondo che pretendono di essere”[8], sulla neutralità della Società delle Nazioni nutre forti dubbi, è scettico sulla tenuta del trattato di pace per via delle riparazioni di guerra. Le sue fonti? I giornali di cui è convinto di non potersi fidare perché “la storia come un cumulo di avvenimenti non vuol dire niente”[9].
Il coinvolgimento per il destino della sua gente è ben diverso. In questo caso non si tratta di curiosità perché come ebreo si sente addosso tutta “la pressione del mondo” [10]; più che la lettura dei giornali, è il suo sesto senso ad allertarlo. Come la talpa del suo ultimo racconto – scritto, non a caso, durante la sua permanenza a Berlino nel ’23 – anch’egli fiuta il pericolo tutt’intorno. È da un po’ che l’antisemitismo lo tormenta; ha già avvelenato la piccola borghesia, questo “grande branco di piccoli animali che essendo percettibili sono superiori alla minutaglia” [11] e si accinge a completare l’opera con la classe operaia. Ma se ciò accadesse – e accadrà – allora anche l’ultimo rifugio sarà profanato. Certo, gli sfugge la portata della tragedia ma avverte chiaramente che il pericolo non è immaginario; nel caso poi della classe operaia, si tratterebbe di un nemico a modo suo innocente, addirittura “qualcuno della mia specie, un conoscitore e amatore di tane”. A portarlo su questa traccia, il suo lavoro: “Lo si vede qui nell’Istituto delle Assicurazioni che, essendo frutto del movimento operaio, dovrebbe essere dominato dallo spirito luminoso del progresso. Qual è invece la realtà? L’Istituto è un tetro covo di burocrati dove io sono messo in mostra come unico ebreo”[12].
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A impedire l’accesso al «politico» kafkiano è stato lo scavo nelle sue fonti ebraiche, à la Baioni per intenderci [13]. Così le lunghe tiritere che Kafka nelle sue lettere e nei suoi diari ricama attorno al «possibile» e all’«impossibile» sarebbero tutte riconducibili alla mania ebraica per l’esegesi biblica mentre le interpretazioni infinite e disperanti in cui si avvitano i suoi personaggi ricorderebbero da vicino le controversie insolubili tra rabbi; ma anche le parabole, gli apologhi, gli aneddoti che infarciscono i suoi racconti e i suoi romanzi deriverebbero dalla quella tradizione. Per non parlare dei suoi grandi topoi, ad esempio della Legge e della colpa[14]. Neppure una lettura in chiave fenomenologica o psicoanalitica ci aiuterebbe a tirar fuori il nostro ragno dal suo buco. Anche in questo caso le risposte sarebbero tante e tutte esatte ma senza un risultato concreto .
Si potrebbe sempre dire che forse questo ragno non c’è considerando che il Nostro è solo uno scrittore. Vero ma quell’identità concettuale di possibile e impossibile da cui siamo partiti per pensare «il politico» kafkiano, ci appare troppo intrigante per soprassedere. E per non sbagliarci, iscriviamo d’imperio la sua produzione letteraria in quella che Blanchot, nel suo libro dedicato a Kafka, chiama “letteratura d’azione”, nel senso precipuo che “chiama gli uomini a fare qualcosa”[15]. Sì, perché quel possibile che nega il suo inveramento, tutto significa tranne che inazione. La prova? Intanto la vita vissuta dallo stesso Kafka. Quel «per me è impossibile il possibile» Kafka lo rivolge innanzitutto a se stesso per tradurlo, ha ragione Blanchot, in una lotta senza fine contro la mala sorte della sua malattia e contro quella del buon senso ventilatogli sotto il naso dal rabbino… Eterna per l’impossibilità di porvi fine[16]. Quanto agli altri cui accenna Blanchot, in cosa dovrebbero seguire Kafka? Non nella fatica di Sisifo in cui è impegnato il messaggero, instancabile nel suo procedere per scale, stanze e palazzi che tanto ci ricordano gli spazi impossibili di Escher[17], quanto impotente a concludere il compito assegnatogli[18]; piuttosto nel gesto di chi, grazie a un fine udito che gli permette di cogliere la chiamata di una tromba in lontananza, si avvia a seguire una trama che nessuno ha intessuto, senza un messaggio da consegnare, un imperatore che glielo sussurra e un misero suddito che lo aspetta.
«Dove vai, signore?». «Non lo so», […] «Pur che sia via di qua, via di qua, sempre via di qua, soltanto così posso raggiungere la meta». […] Via-di-qua; ecco la mia meta»[19]. Dunque nessun paese dove scorre latte e miele verso cui dirigersi, nessun deserto che gli si distenda davanti in una sorta di cattiva infinità, solo la de-cisione, qui e ora, di tagliare i ponti con l’esistente. Si comprende così il finale dell’apologo. Se il viaggio si prospetta “veramente straordinario” nonostante la sua durata interminabile, la fame e la morte certa, è perché a contare è solo il rifiuto, insistito e mai dismesso, di ogni appaesamento allo stato presente delle cose. Vogliamo chiamare questa partenza rivolta?
Ma è quanto sentiamo risuonare oggi nelle rivolte dei neri americani, dei gilets jaunes e dei Xiangangren. Anche quel «sempre», avverbio della ripetizione, ci parla della rivolta, del suo tempo insieme finito e senza fine e soprattutto sincopato. Immaginiamoci per un momento il mondo della rivolta come un ring. Al suo centro, il tiranno di turno a impersonare lo stato delle cose e a parare i colpi che gli giungono da ogni dove perché la rivolta è come Cassius Clay: elude, schiva, colpisce duro; se cade, si rialza, con i suoi tempi certamente, ma sempre si rialza. Occupare quel centro sostituendosi al tiranno o solo sfiancarlo fino a mostrarlo nudo alla sua gente? Su questa natura costituente e destituente della rivolta si ragiona oggi.
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Il timore di non riuscire a mostrarne la qualità destituente è stato il cruccio filosofico di Agamben, impegnato da decenni a decostruire l’apparato concettuale della nostra filosofia politica attraverso un ritorno alla filosofia prima di Aristotele. Una virata di 360 gradi resa possibile dall’intenso lavorio sul libro Theta della Metafisica centrato sul concetto di potenza[20]. Un’inedita interpretazione in chiave ontologica gli permetterà di procedere di buona lena per anni e anni nel suo lavoro di decostruzione[21]. A soccorrerlo, scrittori come Kafka e Melville, interpellati con inquieta curiosità alla luce del concetto di «potenza». È soprattutto lo scrivano di Melville, Bartleby, a intrigarlo per quel suo insistito I would prefer not to o anche I prefer not (preferirei di no/preferisco di no) con cui respinge in un botta e risposta serrato le richieste del suo datore di lavoro[22]. Più dei personaggi di Kafka, assunti a simbolo di una più generale condizione umana, è Bartleby a rappresentare col suo diniego e con i pochi gesti che l’accompagnano, l’aristotelica “potentia passiva”[23], una potenza, cioè, che non conosce l’urgenza di procedere all’atto. Nel tempo questa risposta sarà declinata in vari modi fino a diventare la formula stessa della potenza in quanto potenza- di- non che, tradotta nel linguaggio della filosofia politica da cui vuole prendere le distanze, diventerà presto potenza destituente opposta a quel potere costituente che attraverso la rivoluzione origina sempre nuove forme di Stato. Agamben finirà per scorgervi una “desolata dialettica” [24] fra due tipi potere di fatto inseparabili a meno che un diverso tipo di potenza intervenga a ridisegnare il quadro. Quale politica a-venire è però problema tutto da definire. Invece la condizione per cominciare a pensarla è chiara ed è la stessa di Kafka: partire dal “semplice fatto della propria esistenza come possibilità o potenza” [25]. Dunque, nessuna essenza da realizzare e nessun sogno da inseguire.
Viene il sospetto che nella sua rilettura di talune categorie heideggeriane, in particolare quella di fatticità dell’esser-ci[26], almeno uno stimolo l’abbia ricevuto proprio da Kafka i cui personaggi, creature di questo mondo, non vi sono semplicemente gettati, ma si sforzano di essere il loro «ci», di realizzare un loro modo di essere, una loro forma di vita. Se non ci riescono, è perché re-agiscono come tanti piccoli Brod, lottando fino allo stremo per un impossibile che può arrecare loro solo sofferenza.
Anche per Agamben la vita fattizia si dà nel modo della possibilità, sottratto però alla tirannia del principio d’identità e restituito alla logica modale. Operatore ontologico tra altri operatori ontologici, Agamben ne fa un’arma di lotta, in particolare un operatore della soggettivazione unitamente alla contingenza[27]. Naturalmente non sta parlando di Kafka, ma tant’è.
[1] G. Janouch, Colloqui con Kafka in F. Kafka, «Confessioni e diari», Mondadori Editore, Milano 1972, p. 1124.
[2] Ivi p. 1123: “Sfogliando un volume con disegni di George Grosz disse: «Questo è il vecchio aspetto del capitale: il grassone in cilindro seduto sopra il denaro dei poveri». «Ma è soltanto un’allegoria» osservai. Kafka corrugò le sopracciglia. «Lei dice soltanto! Nella mente degli uomini l’allegoria diventa una copia della realtà, e ciò è, beninteso, errato. L’aberrazione però sta già qui. […] L’uomo grasso in cilindro sta sul collo ai poveri. Giusto, ma l’uomo grasso è il capitalismo, e ciò non è più interamente giusto. L’uomo grasso domina il povero entro un determinato sistema, ma egli non è il sistema, non è nemmeno il suo dominatore. Al contrario, il grassone ha anche lui le catene che nel quadro non appaiono. Il quadro non è completo, quindi non è buono. Il capitalismo è un sistema…”.
[3] Ivi p. 1106.
[4] Ivi p. 1108.
[5] Ivi p. 1109.
[6] Ivi p. 1106.
[7] Ivi p. 1109: «Io non capisco niente di politica. Naturalmente è un difetto che mi piacerebbe eliminare. Ma ho anche tanti altri difetti. Le cose più vicine fuggono dinanzi a me e vanno sempre più lontano».
[8] Ivi p. 1092.
[9] Ivi p. 1112.
[10] Ivi p. 1135.
[11] La tana in F. Kafka, «Racconti», Mondadori Editore, Milano 1970, p. 534.
[12] Confessioni e diari, cit., p. 1135.
[13] Per tutti G. Baioni, «Kafka: letteratura ed ebraismo», Einaudi Editore, Torino 1984.
[14] Nella colonia penale in «Racconti», cit., p. 291: “Il principio secondo cui decido è questo: la colpevolezza è sempre fuori discussione”.
[15] Da «Kafka a Kafka», cit., p. 23.
[16] Ivi pp. 187.
[17] Autore, è bene ricordarlo, di una sua metamorphose!
[18] Un messaggio dell’imperatore in «Racconti», cit.
[19] La partenza in «Racconti», cit., p. 454.
[20] G. Agamben, «La potenza del pensiero. Saggi e conferenze», Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, pp. 273-287.
[21] G. Agamben, «Idea della prosa», Feltrinelli Editore, Milano 1985; G. Agamben, Quattro glosse a Kafka in «Rivista di Estetica», Rosenberg & Sellier, n. 22, Torino 1986. Con Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi editore, Torino 1995, prende avvio il progetto di decostruzione della filosofia politica occidentale. In proposito C. Salzani, «Introduzione a Giorgio Agamben», il melangolo, Genova 2013, p. 76.
[22] H. Melville, «Bartleby lo scrivano», Feltrinelli Editore, Milano 1991.
[23] Quattro glosse a Kafka, cit., p. 43.
[24] G. Agamben, Per una teoria della potenza destituente in «L’uso dei corpi», Neri Pozza Editore, Vicenza 2014.
[25] «La comunità che viene», cit., p. 30.
[26] Sul tema La passione della fatticità in «La potenza del pensiero», cit.
[27] G. Agamben, «Quel che resta di Auschwitz», Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 136: “Le categorie modali – possibilità, impossibilità, contingenza, necessità – non sono innocue categorie logiche o gnoseologiche, che concernano la struttura delle proposizioni o la relazione di qualcosa con la nostra facoltà di conoscere. Esse sono operatori ontologici, cioè le armi devastanti con cui si combatte la gigantomachia biopolitica per l’essere”.
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