Agamben o dell’impotenza

La potenza destituente fra Kafka e Melville

“Tu vuoi l’impossibile” [1]. Così Kafka all’amico Brod. Ma cos’è l’impossibile? La meta. Sei lì lì per coglierla e solo per un pelo non l’agguanti. Arrivare “ vicinissimo alla meta” [2], solo un pelo, niente di più niente di meno. E il possibile?  La risposta di Kafka è altrettanto perentoria: per me è impossibile il possibile[3]. Troppo secca per lasciare qualche dubbio in proposito. Identità assoluta e nessuna dipendenza logica l’uno dall’altro perché i due concetti sono uno come mostra bene il passaggio del sostantivo «l’impossibile» a predicato di «il possibile». È questa inerenza a escludere ogni loro correlazione, fosse anche di esclusione, secondo il sistema delle dipendenze logiche proprie della logica modale[4]. Né ora né mai e altre simili locuzioni disseminate a piene mani in tutta l’opera kafkiana diventano così spie del disconoscimento di questo tipo di logica. Lo stesso accade per l’altro concetto modale di necessità, anch’esso riassorbito nel possibile: “Il possibile è inteso in sé, come necessità. E cioè: mai («né oggi, né un’altra volta») il possibile potrà farsi reale. Se divenisse reale, non sarebbe più possibile”[5]. È quanto il segretario Bürgel de Il castello cerca di chiarire  all’agrimensore K.[6], troppo preso  dall’incantamento dell’albero per prestare ascolto al cicaleccio che anima la vita del sottobosco[7]. Gli è che K.[8] ha il suo modo di intendere e di volere. Ragiona attenendosi maniacalmente all’alternativa «o vero o falso»; le sue sono sempre asserzioni ispirate a questo criterio di verità e che esauriscono il loro compito nella descrizione esasperata e pignola dello stato di cose reale. Per questo tipo di logica, denominata non a caso assertoria, non c’è posto né per la possibilità né per la necessità, tanto meno per quell’improbabilità che, come sottolinea con forza Bürgel, inficia la facoltà di giudizio con “considerazioni inopportune riguardanti la condizione privata delle parti, i loro dolori e crucci”[9]. Che sono l’impasto di cui è fatto il mondo. Come spiegare altrimenti il suo impazzimento trasmessoci attraverso lo sguardo straniato di K.? Egli ha informato la sua vita al principio di non contraddizione mentre la stessa vicenda in cui è invischiato è lì a dimostrargli che il mondo segue un’altra logica e che forse la sua descrizione – quella dei fatti empirici che tanto gli pesano – se vuole riuscire veramente puntigliosa e realistica, deve decidersi per un’altra logica. Modale, per l’appunto. Ma è quanto K. e le sue controfigure non riescono a comprendere. Possono far finta di niente, credere che le tante, troppe contraddizioni in cui sono incappati siano solo apparenti e che prima o poi di necessità saranno tolte, ma intanto, nell’attesa[10], tutti quanti danno prova della più assoluta im-potenza, obbedendo ora agli ordini impartiti dall’alto (Il castello), ora alla legge (Il processo).

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Fin qui la finzione letteraria. Forse coglie nel segno Blanchot quando scrive che “la stranezza di libri come Il processo o Il castello sta nel riferimento incessante a una verità extra-letteraria, che però cominciamo a tradire proprio quando essa ci attira fuori della letteratura, con la quale non può tuttavia confondersi”[11]. È di questa verità extra-letteraria che abbiamo fin qui parlato, sollecitati da problemi di logica, aristotelica e non. Se è questa insistita fedeltà dei personaggi kafkiani ai principi universali della non-contraddizione a motivare la loro im-potenza, in una parola a decidere del loro rapporto col mondo, perché non estendere il «possibile» kafkiano alla sfera del «politico kafkiano »,  quanto meno metterci sulle sue tracce? Domanda legittima se smettiamo per un momento di pensare quell’«im-possibile» su un piano meramente logico piuttosto che ontologico.

Riprendo nella sua interezza il frammento della seconda lettera a Brod da cui siamo partiti: «[…] tu vuoi l’impossibile per un bisogno che non diminuisce; questo non sarebbe niente di eccezionale, molti lo vogliono ma tu ti spingi più avanti di chiunque io conosca, arrivi vicinissimo alla meta, ci arrivi solo vicinissimo, non completamente alla meta, perché questa è appunto l’impossibile, e di questo «essere vicinissimo» soffri e devi soffrire»[12]. Già, soffri e devi soffrire. L’effettualità di quella logica è sofferenza sul piano individuale, sofferenza dovuta per aver inseguito – revocando in dubbio la certezza del principio di non contraddizione – l’impossibile credendolo possibile.


[1] Lettera a Max Brod, 13 gennaio 1921 in Max Brod/Franz Kafka, «Un altro scrivere», Neri Pozza Editore, Vicenza 2007, p. 297.

[2] Lettera a Max Brod, 16 agosto 1922, ivi p. 405.

[3] Lettera del 13 gennaio 1921, cit.

[4] In proposito K. Jacobi, Possibilità in «Concetti fondamentali di filosofia» 2, Editrice Queriniana, Brescia, pp. 1568

[5] M. Cacciari, «Icone della legge», Adelphi Edizione, Milano 1985, p. 82-83.

[6] F. Kafka, «Il castello», Mondadori Editore, Milano1973, p. 274: « E ora pesi lei, signor agrimensore, la possibilità che una delle parti, con l’aiuto delle circostanze, nonostante le difficoltà or ora descritte e in generali sufficienti, riesca nel bel mezzo della notte a cogliere di sorpresa un segretario che possegga una certa competenza per il caso in questione. Lei non aveva ancora pensato, vero, a questa possibilità? Non stento a crederlo. D’altra parte non è necessario pensarci, essa non si presenta quasi mai. Strani pesciolini, e particolarmente conformati, agili e sottili debbono essere costoro per sgusciare tra le maglie di una rete così fitta. Lei non lo crede possibile? Ha ragione, non lo è [grassetto nostro]». 

[7] G. Janouch, «Colloqui con Kafka», Guanda Editore, Parma 2005, p. 121: “Nonostante il brulichio, ognuno è muto e isolato in se stesso. I valori dell’individuo non combaciano più. Non viviamo in un mondo in distruzione, ma in un mondo stravolto”. Sempre G. Janouch in Colloqui con Kafka in F. Kafka, «Confessioni e diari», Mondadori Editore, Milano 1972, p. 1082: «Tanto solo si sente?» domandai. Kafka accennò di sì. «Come Kaspar Hauser?» osservai. Egli si mise a ridere: «Molto paggio di Kaspar Hauser. Mi sento solo… come Franz Kafka».

[8] Ma questo vale anche per Joseph K. de «Il processo», per Gregor Samsa de «La metamorfosi» e per tanti altri personaggi dei Racconti.

[9] «Il castello», cit., p. 270. Dove, a proposito dell’improbabilità, leggiamo a p. 275: «E anche se quell’improbabilità estrema [che qualcuno possa incontrare nottetempo un segretario in grado di aiutarlo] prendesse forma all’improvviso, forse che tutto sarebbe perduto? Al contrario. Che tutto sia perduto è ancor più improbabile di quell’estrema improbabilità».

[10] Altro tema assolutamente centrale negli scritti di Kafka. Interessante notare che a patire la lungaggine dell’attesa fino a morirne sia sempre un anonimo disgraziato: un uomo di campagna ne «Il processo», un misero suddito nel racconto «Il messaggio dell’imperatore». 

[11] M. Blanchot, «Da Kafka a Kafka», Feltrinelli Editore, Milano 1983, pp. 48-49.

[12] Lettera 16 agosto 1922, cit.

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Pubblicato daMACHINA