Romanzo di formazione e romanzo storico si fondono nell’ultimo lavoro di Adrián Bravi, Verde Eldorado, che racconta le vicende del giovane Ugolino, ragazzo veneziano che salpa verso il Nuovo Mondo come cronista durante una spedizione capitanata dal Piloto Mayor Sebastiano Caboto. Il XVI secolo resta tuttavia sullo sfondo a fare da scenografia e il vero fulcro del romanzo saranno le avventure di Ugolino, prima allontanato dalla casa paterna dopo essere rimasto sfigurato in un incendio, successivamente a bordo di una caravella e infine abbandonato dai compagni lungo il Rìo de la Plata, presso un villaggio popolato da indios antropofagi.
Se nella terra natia il suo volto deturpato dalle fiamme rappresenta il marchio di una disgrazia da tenere costantemente celato sotto un cappuccio, presso gli indios sarà al contrario interpretato come segno di prossimità al divino, identificandolo come un essere risparmiato dai signori del fuoco (Karai). Nei suoi viaggi Ugolino sperimenta anche il contatto con la grande personalità di Caboto che, per la prima parte del romanzo, rappresenta una sorta di secondo padre, abbandonandolo poi insieme ad altri compagni per inseguire il folle miraggio di una città lastricata d’oro e d’argento chiamata Rey Blanco. Privato del riferimento di una figura paterna, Ugolino dovrà lottare per costruire una propria identità in quel nuovo mondo incomprensibile e ostile. Questo processo avviene attraverso sentimenti duplici rispetto alla sua vita precedente nella quale da un lato veniva marginalizzato per la sua deformità (dal padre e dal fratello), mentre da un altro rappresentava ancora una forte connessione alla sua dimensione infantile (madre e nonno).
La sua nuova condizione, gli impone di comprendere il mondo degli indios, imparandone la lingua e integrando la propria visione della vita con la loro. Ugolino non dovrà dunque abbandonare la propria cultura in vista di un ritorno alla natura (il libro infatti non promuove una sterile lode del noble savage), ma utilizzarla per comprendere meglio sé stesso e il rapporto con l’altro. Lo sradicamento, tema centrale nel libro, diventerà dunque l’opportunità per la definizione di un’esistenza autodeterminata secondo valori liberamente scelti, anche se questa adesione non sarà immediata. Nel passaggio in cui Ugolino capisce che gli indios non hanno intenzione di squartarlo e mangiarlo, come hanno fatto con i suoi compagni, ma percepisce nel proprio sollievo la traccia di un disagio più profondo.
Da una parte ero lusingato di sapere che non contemplavano la mia morte e che, inoltre, avevano deciso di integrarmi; dall’altra, la prospettiva di mettere radici mi inquietava. I gesti e le smorfie che mi rivolgevano erano inequivocabili, nel senso che non lasciavano trapelare alcun dubbio: mi stavano accogliendo nel grembo della loro tribù, ma non so se la parola ‘grembo’ sia adatta alla circostanza
Il personaggio di Ugolino e la vicenda del suo abbandono collega Verde Eldorado al libro El entenado (in italiano, L’arcano) dello scrittore argentino Juan José Saer; anche in questo caso si racconta di un personaggio – peraltro presente anche nella storia di Bravi – abbandonato presso un villaggio di cannibali, in cui vive per dieci anni, ma che abbandonerà alla prima occasione utile, non essendo mai riuscito a silenziare del tutto il richiamo che lo attirava alla sua vita precedente.
A lungo Ugolino analizza la propria condizione, spesso facendo ricorso agli studi filosofici e in particolare al Periphyseon del teologo irlandese Giovanni Scoto Eriugena (IX sec.), un testo che ha portato con sé e che compulsa costantemente, ma che, forse a causa di un percorso educativo mai completato (o magari proprio grazie a ciò), faticà a comprendere a fondo. I dogmi della creazione, presenti nel libro sono utilizzati come punto di partenza per l’avvicinamento e l’accettazione della vita con gli indios. L’atto della creazione, inizialmente percepito nello studio come astratto ed estraneo, diventa pratica attiva nel nuovo linguaggio che il protagonista inventa per designare tanto realtà fisiche fino a quel momento inimmaginabili (viene portato l’esempio dell’armadillo, un animale, mai visto prima e rappresentato come una singolare creatura che si avvia ben equipaggiata verso una battaglia), quanto condizioni psicologiche. La lingua degli indios – di cui non abbiamo testimonianze storiche – è narrata in maniera affascinante all’interno del romanzo e descritta come una “lingua in gestazione”, una lingua dunque non ancora definita in cui i confini tra le cose (mano e braccio, scimmia e albero) sono sfumati e dove le parole utilizzate lasciano trasparire la consapevolezza dell’apparenza delle cose rispetto all’oggetto designato, quasi manifestazioni individuali di un essere più profondo e unitario.
Una lingua quindi del tutto simile a quella utilizzata da Bravi per il suo romanzo; lo scrittore di origine argentina infatti ha inizialmente esordito come narratore in lingua spagnola, per poi adottare l’italiano; dunque Verde Eldorado esprime, tanto nei contenuti quanto nella forma, la ricerca di un’identità integrata, basata sulla comprensione del mondo circostante e non sulla definizione di arbitrari confini volti a determinare l’individuo in base alla contrapposizione rispetto alla realtà circostante.