“Ti saluto all’inizio di una grande carriera. Quando mi mandi il manoscritto?” Questo il testo del celebre telegramma con il quale Lawrence Ferlinghetti, parafrasando l’altrettanto celebre lettera di Ralph Waldo Emerson a Walt Whitman, scrisse ad Allen Ginsberg all’indomani del suo celebre reading di poesia alla Six Gallery di San Francisco (Ottobre 1955), durante il quale aveva declamato il suo Howl, destinato a diventare il manifesto, l’Urlo di una intera generazione.
Lawrence Ferlinghetti, morto alcuni giorni fa a 101 anni, era l’ultimo dei Beat (a parte l’ormai novantenne Gary Snyder), l’ultimo di quella eletta schiera di scrittori, di poeti e romanzieri che, a partire dagli anni Cinquanta, ha rivoluzionato per sempre il panorama letterario e la società americana. Ovviamente anche lui, come gli altri Beat, tranne forse Ginsberg e Kerouac, negava questa sua appartenenza, cercava di sfuggire al tentativo di etichettare la sua opera in un’epoca e in un movimento ben precisi: “I never was a Beat poet” – era solito dire.
Era molto legato alle sue origini italiane: volle a tutti costi recuperare il suo cognome originario Ferlinghetti, che era stato cambiato in Ferling, e una volta fu perfino arrestato in Italia mentre cercava di rintracciare la casa in cui aveva abitato il padre Carlo a Brescia, perché era stato scambiato per un barbone. In Italia Ferlinghetti è stato tradotto, tra gli altri, da Fernanda Pivano (Poesia degli ultimi americani, Feltrinelli 1964), da Roberto Sanesi, da Massimo Bacigalupo e da Damiano Abeni ed è sicuramente uno tra i poeti statunitensi più conosciuti e tradotti in Italia.
Dicevamo della sua appartenenza al Movimento Beat. Le varie personalità degli scrittori Beat si compenetravano perfettamente, e ogni singola figura incarnava un aspetto ben preciso del Movimento. William Burroughs, nato a Saint Louis, ne incarnava l’umorismo nero e corrosivo, sottolineato dal suo inconfondibile accento del Sud: le vicissitudini con la droga e la tragica morte della moglie Joan Vollmer nel 1951 furono una sorta di mito fondativo del Movimento Beat, la molla che mise in moto tutto quanto. Allen Ginsberg, nato a Paterson, New Jersey, era invece il tipico intellettuale ebreo newyorkese (di adozione) tormentato e alla continua ricerca di conferme del proprio genio che, da studente della Columbia University, iniziò a frequentare un brutto giro di tossici, di spacciatori, di ladruncoli e poco di buono che gravitava intorno a Times Square, finendo per imbattersi in Burroughs. Jack Kerouac era il tipico ragazzone americano di provincia, che amava le partite a baseball e aveva grande successo con le ragazze, ma dietro questo suo atteggiamento straight nascondeva la sua grande insicurezza e il suo attaccamento a una madre molto possessiva. Gregory Corso, di origine italiana come Lawrence, era cresciuto alla Scuola del Carcere, e dunque rappresentava il lato maledetto e autodistruttivo dei Beat. Leggendario l’episodio che vide Corso “ripulire” la cassa della libreria City Lights a conclusione di un reading, un furto che ovviamente non venne denunciato.
Lawrence Ferlinghetti invece era non solo un grande poeta e un raffinato intellettuale engagé – conosceva benissimo, ad esempio, i poeti francesi, tra cui il suo amato Prévert e alcuni dei maggiori poeti italiani, tra cui Ungaretti e Pasolini – ma anche un editore coraggioso (affrontò con grande determinazione il processo per oscenità intentato contro l’Urlo di Ginsberg ) e dotato di grande fiuto. Nessuno poteva immaginare, a metà degli anni Cinquanta, che la poesia di Ginsberg avrebbe “sfondato”. Lui invece intuì per primo il potenziale esplosivo dell’Urlo di Ginsberg e decise di pubblicarlo, contribuendo alla sua diffusione a livello planetario.
Ferlinghetti è stato anche un grande animatore culturale. Per quasi settant’anni, la sua libreria City Lights a San Francisco, al 261 di Columbus Avenue, è stata un punto di riferimento imprescindibile per l’intero Movimento Beat e per la controcultura in generale, così come lo è stata l’omonima casa editrice. A lui non dispiaceva essere chiamato poeta-editore, poeta-libraio o semplicemente libraio, e la sua libreria ha continuato ad essere per anni un centro politico-culturale di grande importanza. Il pellegrinaggio alla City Lights era una tappa obbligata per gli studiosi e per gli amanti della poesia, e non era raro incontrarlo di persona dentro la libreria, o nei suoi paraggi, e scambiare quattro chiacchiere con lui. Non era e non è mai stato uno che si metteva sul piedistallo, uno che si dava delle arie, ma ha sempre amato stare in mezzo alla gente, conoscere i problemi della gente, dare il suo contributo. Ogni qual volta si è trattato di intervenire su un problema cittadino o addirittura sulla manutenzione del verde, la trasformazione delle aree popolari in residenziali e in generale la vita di quartiere, Ferlinghetti non si è mai tirato indietro. Lawrence era dotato di un’ironia straordinaria. A chi gli chiedeva: “Scusi ma lei è il famoso poeta Ferlinghetti?”, lui rispondeva – alludendo alla sua parallela passione per la pittura – “Sì, sono il famoso pittore.”
Lawrence Ferlinghetti era nato a Yonkers, New York, nel 1919, da una famiglia di origine franco-portoghese ed ebraica da parte di madre e italiana da parte di padre. Il padre morì sei mesi prima che Lawrence nascesse, e ben presto la madre cominciò a dare segni di squilibrio mentale, per cui fu internata. Il piccolo Lawrence finì in un orfanotrofio, e successivamente venne affidato alla zia Emily, ma purtroppo anche la zia sprofondò ben presto nella follia. Dopo varie vicissitudini, il giovane Lawrence si iscrisse all’Università della North Carolina, laureandosi nel 1941. Alla fine del 1941, dopo Pearl Harbour, si arruolò nella Marina americana e partecipò allo sbarco in Normandia. Combattè anche nel Pacifico, dove fu testimone della distruzione di Nagasaki, esperienza da cui nacque il suo pacifismo – come si suol dire oggigiorno – senza se e senza ma. Negli anni ’60 e ’70 partecipò al movimento del Flower Power e alle manifestazioni contro la Guerra in Vietnam e fu uno dei leader di quel forte movimento di protesta che portò infine alle dimissioni del Presidente Nixon. In tempi più recenti si era scagliato contro la Guerra in Afghanistan, le due guerre scatenate da Bush Padre e Bush Figlio contro l’Iraq, ed era intervenuto pubblicamente anche all’indomani dell’Attacco dell’11 Settembre.
Le influenze maggiori sulla poesia di Ferlinghetti sono state soprattutto quelle di Walt Whitman, di T. S. Eliot e di Marianne Moore, e in genere tutta la tradizione della poesia statunitense non-sperimentale, che cominciò a studiare seriamente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Di ritorno dal fronte, infatti, si iscrisse alla Columbia University, poi si trasferì per un periodo in Francia e studiò alla Sorbona, dove fece un Dottorato sulla poesia. Nel 1953, trasferitosi a San Francisco fondò la City Lights, che diventò un importante punto di riferimento per i poeti della cosiddetta San Francisco Renaissance. Nel 1955 la City Lights si trasformò in casa editrice, pubblicando la prima raccolta di poesie dello stesso Ferlinghetti, Pictures of the Gone World, primo volume della serie dei City Lights Pocket Poets, destinata ad avere un grande successo tra i giovani per decenni. Tutti i ragazzi impegnati dell’epoca si portavano dietro, infilato nella tasca posteriore dei jeans, un tascabile della City Lights. Il quarto volume della serie è Howl di Allen Ginsberg, di cui abbiamo parlato sopra. Ferlinghetti diventò l’editore ufficiale dei Beat. Tra i suoi “buchi” più clamorosi come editore, il rifiuto di pubblicare Pasto Nudo di Burroughs, ritenendolo un libro troppo “tossico”.
Nel 1958 pubblicò A Coney Island of the Mind (1958), la sua raccolta più celebre, che raggiunse negli anni il milione di copie. In Italia, A Coney Island of the Mind è stata ripubblicata con una nuova traduzione da minimum fax nel 2018. Altre opere importanti di Ferlinghetti sono Starting from San Francisco (1967), After the Cries of the Birds (1967), The Secret Meaning of Things (1969; trad. it Il senso segreto delle cose, minimum fax, 2000), Open Eye, Open Heart (1973), Who Are We Now? (1976), Landscapes of Living and Dying (1979) e Endless Life (1981). Qualche anno fa, Guanda ha riproposto la scelta di poesie curata da R. Sanesi (Poesie, 1978; rist. 1997, 2005). All’inizio del 2020 le Edizioni Clichy hanno pubblicato Little Boy, biografia annunciata da decenni.
Le poesie di Ferlinghetti sono colloquiali, parlano dei fatti della vita quotidiana o dell’attualità, e sono scritte per essere lette in pubblico. “Se vuoi essere poeta, alzati in piedi e fatti sentire!” era la sua esortazione a quanti ambivano a diventare poeti. Per quanto riguarda le tematiche da lui affrontate, sono le più varie: si può dire che non c’era nulla che riguardasse l’uomo e la sua esistenza quotidiana che non gli interessasse. È rimasta celebre la sua poesia Underwear, dedicata appunto alla biancheria intima, a dimostrazione del suo continuo sforzo di “allargare il campo del poetabile”, cioè dei soggetti degni di diventare argomento di una poesia, sulla scia della poetica di Marianne Moore. Ferlinghetti ha continuato fino all’ultimo a pubblicare raccolte di versi, a dipingere e a prendere posizione sulle grandi questioni sociali con interviste e prese di posizione di forte critica nei confronti della politica del Presidente Trump, da lui descritto, senza mezzi termini, come un fascista. Se ne va uno degli ultimi poeti che ancora credeva nella funzione sociale, di denuncia, della poesia, un poeta che non aveva alcuna voglia di rinchiudersi nella sua torre d’avorio a scrivere versi, ma era sempre pronto a scendere in piazza per declamare le sue poesie in pubblico, a difesa dei diritti dei più deboli, dei poveri e degli sfruttati.
UNDERWEAR
By Lawrence Ferlinghetti
Don’t shout