Non si può volere male a Lauro De Marinis, in arte Achille Lauro, recente fenomeno della musica di massa italiana. Innanzitutto perché è stato uno dei pochi (assieme al produttore e sodale Boss Doms) a usare quel magma barbarico della scena trap italiana come punto di partenza per un progetto più articolato – in grado, cioè, di risultare ascoltabile anche ai maggiori di sedici anni.
Le ambizioni di Lauro si sono concretizzate negli ultimi due Festival di Sanremo, soprattutto in quello del 2020, nei quali la crossmedialità delle sue performance si è espressa tramite collaborazioni con artisti visuali italiani e con il colosso della moda Gucci. Dopo la musica, i videoclip, i costumi elaboratissimi e persino le bambole, il risvolto letterario era inevitabile: prima il testo autobiografico dell’anno scorso (Sono io Amleto, best seller Rizzoli), oggi questa sorta di prosimetro abbinato all’esibizione al Festival e al singolo 16 marzo, con prefazione di Gino Castaldo e Alessandro Michele (direttore creativo di Gucci).
Nonostante le assurde polemiche sul personaggio, il progetto Achille Lauro è qualcosa di affine a quello di una Lady Gaga: come nel caso della cantante americana, all’interno di uno sfarzoso spettacolo pop vengono veicolati messaggi positivi volti a supportare una visione queer dei generi, riuscendo così a épater le bourgeois persino nel XXI secolo (forse più per un bigottismo di fondo nel pubblico che per reale anticonformismo dell’esibizione). Nel caso di Lauro l’operazione è ancora più lodevole, se consideriamo la situazione nostrana e gli attacchi deliranti subiti da parte della trasmissione Striscia la Notizia, colonna portante della piccineria nazionale.
Purtroppo, però, il prodotto in sé è alquanto vuoto e inconsistente: se dal punto di vista musicale e coreutico le basi e le liriche sono assolutamente idonee al contesto di riferimento, la parte letteraria sembra un mero gadget associato al disco.
La prima pubblicazione, Sono io Amleto, poteva anche avere un senso: un’autobiografia intervallata da quadri di autori italiani contemporanei e testi di canzone, in cui si narrava la parabola dell’autore dagli esordi al successo, con riferimento alle sue vicende famigliari (all’incirca lo stereotipo del figlio di professionisti scappato di casa per fare l’artista). Nel caso di 16 marzo ci troviamo, invece, davanti a un terribile poema che, scandendo in “libri” la giornata in questione, intreccia le considerazioni esistenziali di un insonne Lauro con la descrizione delle sue faccende quotidiane e l’ombra della donna amata (che forse incontrerà alla morte del giorno).
Si potrebbe considerare 16 marzo un poema perché è scritto in versi e presenta qua e là qualche distico costruito su rime facili o assonanze – senza contare la sempiterna lista-della-spesa anaforica di questo genere di testi – ma si tratta, piuttosto, di un lungo flusso di coscienza puntellato di continue frasi a effetto da psicologia motivazionale e citazioni da Baci Perugina: una specie di diario scolastico di un tamarro dandy e semicolto. Va segnalata, poi, l’appendice riempitiva che copre un terzo del libro, fra le definizioni da dizionario enciclopedico di alcune parole-chiave e dei riferimenti storico-culturali (nel caso il lettore non sapesse fare una ricerca su Wikipedia), intervallati da riflessioni stucchevoli e dalle immagini del book fotografico della sua performance per Sanremo 2020.
A discolpa di De Marinis, si precisa che nei suoi versi non c’è niente di inferiore a Gio Evan ed è perfetto per un pubblico che non ha mai sentito nominare Sandro Penna e la cui sensibilità artistica è stata forgiata da vent’anni di Amici di Maria De Filippi. Nondimeno, 16 marzo è un testo indigeribile e noioso, sia per l’estenuante citazionismo d’arredamento sia per i contenuti. Più che di modernità liquida, infatti, si tratta di un frullato superficiale di tutto l’immaginario del maledettismo degli ultimi due secoli, in cui Nietzsche si fonde con una religiosità da narcotrafficante messicano e l’ambiguità androgina si contamina con scorie di sessismo benevolo (Le donne hanno il cervello diviso a scomparti, / cassetti ben ordinati, / basta guardare il loro armadio / e quello di un qualsiasi uomo). Il che di per sé potrebbe persino funzionare, se non possedesse l’afflato narrativo di un business plan, cui si aggiungono le frequenti uscite da parvenu – il cui peccato principale è quello di essere assai meno swag delle pose di Fabrizio Corona e, di conseguenza, molto meno divertenti – incastrate poi in una sordida etica calvinistica del lavoro che accompagna tutto il poema come un basso continuo.
Avere un prodotto all’altezza / e saperlo vendere al doppio è la citazione perfetta per 16 marzo, cui almeno un pregio va riconosciuto: se alcuni giovani lettrici e lettori usassero il libro come mappa per esplorare le fonti originali di tutto il panorama culturale a cui si rifà Achille Lauro, il tempo della lettura non sarebbe del tutto sprecato.