Le storie che Abraham Verghese racconta nei suoi romanzi sono immerse nella medicina più pura e concreta – un rituale dove la sua esperienza reale come medico viene assorbita nella vita dei suoi personaggi, coadiuvando letteratura e medicina in storie pienamente umane e corporee. La medicina letteraria che traspare è una storia dal ritmo parsimonioso, che custodisce il tempo per rimodellarlo a proprio piacimento dove presente, passato e futuro cadono l’uno nell’altro. La narrazione dello scrittore è meticolosa e dettagliata nel racconto dell’ambiente che incornicia le vicende dei suoi numerosi personaggi, dell’animo umano stesso, del corpo umano che viene analizzato in tutta la sua fragilità.
Nato in Etiopia da genitori indiani, Verghese lavora come medico negli Stati Uniti. Dopo Il patto dell’acqua, Neri Pozza amplia la sua bibliografia facendo entrare a catalogo La porta delle lacrime, inizialmente pubblicato nel 2009. Dall’India che abbiamo conosciuto nel precedente romanzo, ora ci trasferiamo nelle profondità dell’Africa – ad Addis Abeba, in Etiopia. All’ospedale di Missing, nel 1954, accade che suor Mary Joseph Praise – una suora e infermiera indiana – dà alla luce due gemelli, Marion e Shiva, prima di chiudere eternamente gli occhi e di sentire i passi del loro padre lasciare l’Africa per andarsene via da quella perdita per lui insormontabile. Pian piano all’interno dei cancelli di Missing si forma una famiglia unita da sentimenti che vanno al di là dei legami biologici – Marion e Shiva trovano una casa in Ghosh ed Hema, due medici anch’essi indiani emigrati in Etiopia e testimoni della loro inaspettata nascita e insperata crescita.
L’Etiopia che incontriamo è uno stato politicamente in subbuglio ed etnicamente eterogeneo, caratteristiche di un puzzle che rappresenterà un punto di svolta nel romanzo. L’Eritrea, storicamente colonia italiana, fu ceduta all’imperatore etiope Hailé Selassié con la sconfitta dell’Italia, durante la Seconda Guerra Mondiale, in terra africana – estendendo il controllo etiope nel territorio eritreo. Tuttavia Etiopia ed Eritrea continuarono a essere organismi divergenti gli uni dagli altri, ognuno con la propria storia e desiderio di autonomia – fino alla guerriglia tra Etiopia e Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo che come un ciclone si insinuò tra le crepe e gli squarci privati a Missing. Quando Marion si ritroverà, poi, al cospetto del progresso tecnologico americano, si imporrà di ricordare quanto fosse stata reale la sua vita in Etiopia, così povera di tutto quell’acciaio ma ricca di dissidi politici da farla sembrare irreale.
Secondo il narratore, il gemello Marion, “viviamo proiettati in avanti ma capiamo [la vita] a ritroso” – così la narrazione si piega su sé stessa e la voce di Marion ci arriva prontamente dal futuro per ripercorrere il percorso di un’intera vita – in questo caso, di due intere vite. In fondo possono le vite di due gemelli nati fisicamente collegati percorrere binari senza nessun punto di contatto? Uniti dal profondo richiamo che la medicina esercita nelle loro vite – inevitabilmente, forse, con genitori biologici e adottivi così dediti alla professione medica – Marion e Shiva, tuttavia, si plasmano in modi diversi. Shiva è più razionale, Marion più passionale – le percezioni sono differenti, i cuori hanno battiti irregolari, le ferite sanguinano diversamente. Forse solo la medicina può aiutarli a trovare il loro senso nel mondo e un terreno fraterno comune. Shiva crede che “vivere significa richiudere squarci” – in termini medici, letteralmente risolvere fragilità chirurgiche; ma in termini letterari gli squarci da richiudere, da risolvere, da guarire si allargano al percorso di ciascun personaggio. L’ambivalenza di crepe famigliari e fraterne, geografiche e storiche percorrono l’intero romanzo e finiscono per richiudersi solo con il contatto umano – cos’è una buona storia, sembra chiederci Verghese, senza squarci da guarire?