Se qualcuno vi dicesse che un “ragazzo” di quarantatré anni, scrittore e regista celebre in patria, con buone collaborazioni a livello europeo (ma ancora lontano dall’essere mainstream) ha sentito il bisogno di raccogliere in volume alcuni brevi saggi incentrati prevalentemente sull’introspezione e l’anamnesi personale, scegliendo come fil rouge le sue paure e il suo passato, le vostre reazioni potrebbero essere principalmente due.
La prima: una sonora, istintiva risata, accompagnata dalla conferma che il genere autobiografico è ormai divenuto un brand facile, dal mercato larghissimo e paradossalmente appannaggio dei più giovani.
La seconda, invece, potrebbe essere una sensazione di fastidio, dovuta a quelle paure messe in bella mostra fin dal titolo del volume, accanto al sostantivo collezionista. Scelta che farebbe pensare più a uno psycho-thriller o a un vademecum terapeutico del nuovo guru di turno, convinto di poterci facilmente vendere dei consigli contro gli attacchi di panico.
L’approccio muterà radicalmente se quel “ragazzo” si rivelasse uno sloveno, di madre croata e padre bosniaco, nato nell’allora Jugoslavia federale. Uno che da adolescente ha vissuto la disgregazione del proprio Paese, maturando un disorientamento e dei timori peculiari rispetto a quelli di molti dei suoi coetanei:
Ho continuato a ripetere che appartenevo solo alle mie lingue, alle mie culture e ai miei ricordi, ho spiegato che ero un essere umano disperso sulle loro mappe, in frantumi come un bicchiere rotto. Ma ben presto mi sono stancato di tutto questo. Mi sono stancato di dare spiegazioni, di rispondere alla domanda su chi sono e cosa sono, Mi sono stancato di non appartenere.(p.27)
Goran Vojnović aveva già avuto modo di rivelare ai lettori italiani come ogni traccia autobiografica – appena al di là dei confini di Gorizia e Trieste – fosse sempre figlia di un cordone ombelicale reciso.
Ce lo aveva fatto comprendere attraverso tre romanzi, sorprendenti anche per la loro progressiva ampiezza storica: Cefuri raus! ironica e dura rappresentazione in slang del quartiere di Ljubljana divenuto “ghetto” della popolazione immigrata dai Balcani meridionali; Jugoslavia, terra mia incentrato sul tema della paternità perduta e sui fantasmi della guerra; All’ombra del fico affresco generazionale di una famiglia (molto simile a quella dell’autore) raccontata dalla metà del Novecento ai giorni nostri.
Il passaggio dalla forma narrativa alla raccolta saggistica pone Vojnović e le sue paure in una posizione intellettualmente scomoda.
Il tema della jugonostalgija è infatti gettonatissimo all’interno della cultura europea contemporanea, affamata di feticci e irresistibilmente attratta da tutto ciò che è museale.
Ogni cordone ombelicale reciso rischia di diventare un magnete da frigo o una t-shirt con Tito, davanti ai numerosi fan del vintage.
Lo sguardo sul mondo perduto all’inizio degli anni Novanta è però anche all’origine delle grandi riflessioni di autentiche maestre eretiche come Dubravka Ugrešić e Slavenka Drakulić, due intellettuali che quello sguardo hanno portato in Occidente, trasformandolo nello specchio delle nostre ipocrisie.
Stretto tra questi estremi, Goran Vojnović decide di non puntare sulla memoria politica, né sui facili bilanci da anniversario.
Preferisce setacciare crisi, paure, scosse e riassestamenti personali quanto collettivi partendo da un concetto che il grande Emile Cioran espresse nell’aforisma: “Non si abita un Paese, si abita una lingua”.
Concetto che anche l’autore riconduce inevitabilmente ad un primigenio lessico familiare:
Nella mia infanzia, tutto ciò che più era mio parlava un’altra lingua, la lingua dei miei genitori, la lingua che non ha nome […] La mia lingua, la mia lingua madre, non esiste più, non esiste ufficialmente. Così, quando scrivo nella mia lingua, la adatto a una delle quattro lingue ufficiali, traduco me stesso e mi auto-correggo (p.19)
Pur non subendo la sorte delle migliaia di persone cancellate dall’anagrafe slovena e divenute di fatto “fantasmi” dopo la dichiarazione d’indipendenza, la famiglia Vojnović si trova a vivere in una intollerabile provvisorietà, una specie di transizione infinita, indecifrabile, che plasma i comportamenti degli adulti fino a rendere complicatissima ogni decisione minimamente proiettata verso il futuro, fosse anche la semplice ristrutturazione di un appartamento.
Questo mentre le abitudini dei ragazzi come Goran – i primi figli della dissoluzione, – vengono nettamente divise, spezzate tra il presente indecifrabile dei Nirvana e il lungo addio al passato, simboleggiato dalla morte prematura del “Mozart dei canestri” Dražen Petrović.
L’eco di questo tempo, proustiano e postmoderno, che dall’infanzia si sposta troppo lentamente verso l’età adulta, si riverbera in forma metaforica negli spazi della città in cui Goran Vojnović è nato e nella quale vive ancor oggi. Dettaglio non secondario, dato che l’autore è il primo esponente di entrambi i rami della sua famiglia a non essere emigrato dal luogo di origine, nei primi quarant’anni di vita.
Lubiana è ancora una città di buchi. Lubiana non è una storia finita come Vienna, per esempio, ma non è nemmeno una storia incompiuta come lo sono le megalopoli asiatiche […] Lubiana è incompiuta in un modo completamente diverso. È incompiuta come una striscia di pellicola con fotogrammi pieni alternati a fotogrammi vuoti (p.56)
Amare le proprie fragilità personali come quei “buchi” significa far prevalere su ogni altra cosa la volontà soggettiva, lo spazio di intervento umano nel possibile. Anche se l’urbanistica delle capitali tende a diventarne la negazione, Lubiana è pur sempre una città dove le sedi di alcuni ministeri possono distare poche decine di metri da un immenso spazio sociale (la Metelkova) ricavato da una ex caserma dell’esercito jugoslavo. Oppure dove qualche anonimo abitante dona delle protezioni invernali di lana alle statue dei grandi poeti passati. Vedi il bellissimo capitolo Sciarpa e berretto per Edvard Kocbek (pp. 103-106).
Quasi un’alter ego della capitale slovena è invece la croata e materna Pola, legata agli umori/odori delle estati infantili. Proprio durante una di queste ultime, l’autore vedrà giungere l’alba dell’incubo:
Tengo in mano un bastone di legno, il mio fucile, e guardo i bambini con cui stiamo giocando alla guerra, i bambini che, da un momento all’altro e insieme ai loro padri ufficiali, verranno portati via dalla guerra vera […].
Pola è un luogo, non una città […] è uno spazio inafferrabile e senza limiti. Allo stesso tempo, è la città più vuota del mondo, dove ogni giorno è domenica e ogni parte del giorno è lo zenith (pp. 130-132)
Le radici patrilineari di Goran Vojnović affondano nella Bosnia centrale. Da qui salgono le note musicali delle sevdalinke e i suoni lessicali di ascendenza araba conservati nell’uso comune – come l’inspiegabile mašala derivato da mashallah.
La Bosnia per l’autore è anche il tempo sospeso (non proustiano, non postmoderno) dei sopravvissuti del genocidio di Srebrenica. Il tempo che impedisce loro di relegare nel ricordo le ferite della tragedia e che da decenni impedisce agli sloveni intorno a Vojnović di comprenderle:
tra Srebrenica e Lubiana ci sono 563 chilometri […] eppure a più di un lubianese sembra che la guerra bosniaca si sia svolta in un mondo diverso, che non ci tocca. La distanza è come il tempo. La distanza è ingannevole.(p. 71)
Una vera crisi di rigetto, quella slovena nei confronti di tutto quanto era bollabile come “slavo del sud”: una idiosincrasia capace di giungere a momenti di autentica rimozione culturale.
I genitori di alcuni bambini comprarono i nuovi libri di testo, quelli sloveni, mentre altri avevano ereditati i vecchi manuali jugoslavi dai loro fratelli maggiori. Per questo motivo, fino alla fine della scuola elementare, i nostri insegnanti ci dicevano di aprire il libro a pagina 32 o a pagina 53 […] il nuovo libro di letteratura era infatti notevolmente più sottile di quello precedente. In effetti mancava il capitolo sulla letteratura jugoslava. (p.84)
È inevitabile che in un viaggio storico, linguistico, familiare e personale come quello tracciato dal volume, non potessero mancare i confini – che di paure da collezionare sono da sempre autentiche fucine.
Tra questi, come sublime parentesi satirica, Vojnović mette in risalto la sua esperienza su quello innevato di Kranjska Gora/Tarvisio, in compagnia di una squadra di operatori documentaristici di origine toscana.
Dopo chilometri di abbandono e desolazione lungo il versante italiano – quello sloveno è esattamente il contrario – la troupe si ferma nel primo bar trovato sulla strada. Una volta entrati, i ragazzi toscani si guardano intorno attoniti, generando preoccupazione negli inconsapevoli colleghi sloveni:
Dove ci avete portato? […] Ma non avete notato cosa è appeso su tutte le pareti? Questo è un avamposto fascista! Lega Nord! […] Uno dopo l’altro abbiamo iniziato a guardarci intorno e anche noi abbiamo riconosciuto immediatamente l’iconografia fascista, per altro nient’affatto dissimulata, nelle immagini, nelle decorazioni, negli slogan. (pp.63-64)
Qui la sensibilità di ogni abitante del Friuli, come il sottoscritto, contrae un debito con quella dell’intellettuale Goran Vojnović. Il quale, pur consapevole della storia di repressione e deportazione che ha sciaguratamente unito il territorio friulano alle masse di civili sloveni durante la Seconda Guerra Mondiale, riesce a superare ogni panico e a regalarci questo ritratto dei due gestori del bar:
Parevano fantasmi e, nonostante le loro inquietanti convinzioni politiche, mi facevano pena, bloccati com’erano qui, nel nulla, dove si dissolveva il loro mondo italiano, a pochi chilometri dalla frontiera. (p.64)