Ci sono alcune pagine di rara intensità, in questo volume, che lo scrittore cubano Abilio Estévez sceglie di dedicare alla presenza dell’opera del pittore francese Henri Rousseau, detto “il Doganiere”, nella produzione letteraria di un altro grande autore cubano, José Lezama Lima (1910-1976). Leggendole, non ho potuto fare a meno di pensare a John Berger, e non soltanto perché lo scrittore inglese è stato un grande estimatore di Rousseau, ma anche perché – pur tenendo presente la notevole differenza di interessi e posizionamenti tra i due autori – la qualità del saggismo di Estévez si rivela altrettanto alta, con uno sguardo sempre alla ricerca di una determinata densità stilistica per parlare di arte, o di letteratura, senza accademismi o altri vincoli. Questo, lo sottolinea anche il traduttore e curatore del volume, Alessandro Gianetti, in una nota alla traduzione che diventa, in fin dei conti, qualcosa di simile a una postfazione (giocando sul fatto che una traduzione è, in primo luogo, un’operazione peculiare, appassionata e approfondita, di lettura critica): “Poche volte mi era capitato di leggere un testo così misteriosamente chiaro nell’individuare i temi fondamentali della scrittura”.
È un dato che sembra vero anche al di là delle successive annotazioni di Gianetti, che rimandano all’intreccio, nella scrittura di Estévez, di letteratura ed esperienza. Certamente, le annotazioni autobiografiche e la loro pregnanza conferiscono intensità ai sette scritti dell’autore cubano riuniti nel volume; tuttavia, sembrano avere perlomeno pari importanza, da un lato, la collocazione politica del suo autore nel contesto del regime castrista e, dall’altro, il rapporto con la poesia – così rilevante, quest’ultimo, da indurre la casa editrice Arkadia a licenziare la traduzione con un titolo, Testimonianze di un’orgia poetica, che aggiunge un attributo (non tanto perché pudico, quanto perché criticamente preciso) all’originale, Testimonios de la orgía (2020).
La dissidenza, innanzitutto, è vissuta tanto dall’interno quanto dall’esterno di Cuba, con un’esperienza dell’esilio che accomuna Estévez a Reinaldo Arenas (1943-1990) – attorno al quale ruota il penultimo saggio, peraltro il più lungo, intitolato Reinaldo Arenas, immagine di un allucinato – ma anche a Virgilio Piñera (1912-1979), poeta, narratore e drammaturgo che non lasciò mai l’isola di Cuba, cui Estévez dedica invece il saggio che dà il titolo all’intera raccolta. Un po’ più giovane di Arenas e di molto rispetto a Piñera, Estévez nondimeno condivide la loro prospettiva di rottura con il conformismo ideologico e omofobo imposto dal regime, senza per questo allinearsi con una destra liberale controrivoluzionaria e altrettanto odiosa.
Dissidenza che si riversa sul piano formale in modo poderoso, e comunque sempre cristallino, per tutti e tre gli autori, tra i quali è forse Arenas ad aver goduto di maggiori traduzioni in Italia (anche per effetto del film Prima che sia notte di Julian Schnabel del 2000, con Javier Bardem), seguito da Estévez (i romanzi Tuo è il regno e I palazzi lontani sono stati tradotti per Adelphi) e a maggior distanza – purtroppo – da Virgilio Piñera (del quale risultano finora poche traduzioni sparse, a cura, soprattutto, di Gordiano Lupi).
È Piñera, in particolare, a costituire il trait d’union con l’altro filo rosso che unisce i sette saggi, ovvero la tradizione poetica cubana, esplorata a volo d’uccello nel testo conclusivo, Poeti cubani naufragati sull’isola, ma presente anche negli altri testi. A tornare più volte è, tra gli altri, quel Julián del Casal (1863-1893) che condividerà con José Lezama Lima la sorte dell’insilio, neologismo che indica la condizione di esilio di chi, fisicamente, resta per tutta la vita, o quasi, nell’isola. Tuttavia, al di là di questa connessione esplicitamente istituita da Estévez, del Casal sembra apportare anche l’immagine del poète maudit di ispirazione ottocentesca ed europea, ossia del poeta che cerca di scardinare, in letteratura, le convenzioni sociali, culturali e morali della propria epoca – trovando, peraltro, notevoli difficoltà sul piano politico – come poi Arenas ed Estévez avrebbero cercato di fare con la loro.
A “naufragare” sull’isola, secondo il titolo del saggio, sono, in vario modo, i più famosi tra i poeti spagnoli: fra tutti, Federico García Lorca, Luis Cernuda e Juan Ramón Jiménez. Sarà in particolare quest’ultimo, nel corso del suo soggiorno, a dar prova di aver capito poco o nulla di Cuba – d’altronde, poco più di una colonia recentemente persa, ai suoi tempi, agli occhi di un letterato spagnolo.
È anche per questa distorsione dello sguardo che Estévez ce ne dà ora testimonianza: non soltanto per riparare ai danni di uno sguardo esotista o coloniale tout court, ma per restituirci tutta la varietà e potenza di un’orgia poetica, ovvero di un percorso nella storia della narrativa e della poesia cubana, che è anche un percorso nella Letteratura più in generale.