A scuola con Gramsci per rovesciare l’alternanza scuola-lavoro. Intervista a Roberto Ciccarelli

Tra fine gennaio e metà febbraio 2022 sono morti due giovani in formazione ma al lavoro. Queste due morti hanno suscitato reazioni piuttosto moderate. Eppure essere "in formazione al lavoro" e poi morire è il frutto di politiche deliberate di sfruttamento e trasformazione della scuola in un pascolo per il lavoro a costo zero e la precarizzazione permanente.
Roberto Ciccarelli, filosofo e giornalista, che si occupa di scuola, saperi e precarietà, ci racconta come questa trasformazione richieda una forte mobilitazione critica e che, grazie ai movimenti studenteschi, sia ancora rovesciabile.

Lorenzo Parelli (18 anni, studente) e Giuseppe Lenoci (16 anni, studente) sono morti rispettivamente il 21 gennaio e il 14 febbraio scorsi: due giovani morti mentre erano al lavoro e avrebbero dovuto essere in formazione. Dietro questa ambiguità si cela un intero dibattito nel quale pesa la posizione politico-ideologica di chi ritiene sacrosanta l’idea che il “lavoro” (sempre gratuito, quasi sempre dequalificato e mai in condizioni di piena sicurezza) debba necessariamente essere parte integrante della “formazione”. Un’idea, quest’ultima, rafforzata e sancita dalla renziana “Buona scuola” (2015) che rendeva obbligatoria la cosiddetta “alternanza scuola lavoro”: una esperienza lavorativa in tutti i trienni degli istituti di scuola secondaria di secondo grado per il raggiungimento dei requisiti di accesso all’Esame di Stato finale.

Già dopo la morte di Lorenzo Parelli e poi con manifestazioni sempre più ampie il 18 febbraio, a voler rovesciare lo stato di cose presenti sono stati gli e le studenti che chiedono l’abolizione immediata dell’alternanza. D’altro canto, al di là del facile e ipocrita cordoglio istituzionale seguito alle due tragedie, nulla nella politica di palazzo sembra invece smuovere le acque. E le manifestazioni studentesche chiedono a gran voce anche le dimissioni del Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, il cui inquietante flatus voci dopo le due tragedie lascia davvero tanti dubbi sulle politiche del suo Ministero.

Di tutto questo abbiamo parlato con Roberto Ciccarelli: filosofo e giornalista de il manifesto che, da oltre quindici anni, scrive di Scuola, formazione e saperi a 360 gradi. Ciccarelli, studioso di Spinoza e Marx. Foucault, Deleuze e Guattari, ha scritto anche di precarietà (lavorativa ed esistenziale) insistendo sulla tensione alle vie di fuga, al molteplice, al sovvertimento dell’esistente, all’affermazione positiva.

Co-autore con Giuseppe Allegri di due testi sulla condizione precaria – La furia dei cervelli (manifestolibri, 2011) e Il Quinto Stato (Ponte alle Grazie, 2013) –, Ciccarelli sta portando a compimento una trilogia sulla “forza lavoro”, intesa come quella “facoltà che crea l’uso di tutto i valori del mondo” che è “comune a tutti, indipendentemente dal ruolo, dalla nazionalità e dalle appartenenze”. I due volumi pubblicati finora sono Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi, 2018) e Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (manifestolibri, 2018) [], entrambe recensite qui su PULP Libri.


(Pulp) Roberto Ciccarelli da una quindicina d’anni ti occupi di scuola per Il Manifesto come giornalista. In più conduci un lavoro filosofico che tiene insieme saperi, formazione, lavoro e tutte le forme di soggettivazione che in quei tre ambiti si producono. Cosa significano per te le morti di Lorenzo Parelli (18 anni), schiacciato da una trave di acciaio di 150 chili e di Giuseppe Lenoci (16 anni), schiantatosi in un incidente stradale nel furgone che lo riportava a casa da uno stage? Morti che del resto giungono dopo numerosi e inquietanti tragedie già sfiorate (come si può leggere qui).

Questi tragici fatti sono il risultato di un sistema, non i prodotti di eventi sfortunati e imponderabili. Hanno segnato un salto di livello di un sistema di cui la scuola è diventata parte organica a seguito del ventennio di “riforme” neoliberali sostenute dalla “sinistra” (Berlinguer-Renzi, Pds-Ds-Pd) e dalla “destra” (Moratti-Gelmini nelle varie incarnazioni berlusconiane). Quando si rinuncia al rapporto tra scuola e democrazia e all’obiettivo di emancipare la società, a favore di una scuola che si avvicina acriticamente al “mercato del lavoro” e alle “imprese” si finisce per incamerare nella scuola la realtà esterna che è fatta di sfruttamento, precarietà, alienazione e anche morti del lavoro. Questo sistema ora è arrivato a colpire gli studenti più esposti, quelli dei centri professionali e in generale delle scuole tecnico-professionali. rispetto a un sistema basato sulla frammentazione contrattuale, sulla precarizzazione delle forme del lavoro, su salari miserabili senza tutele sociali dignitose, né istituzioni di garanzia sociale di tipo universalistica.

(Pulp) Nel secondo volume della tua trilogia sulla “Forza lavoro” (a maggio è prevista l’uscita del terzo volume per i tipi di DeriveApprodi, ndr) significativamente intitolato Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro e poi in un recentissimo articolo che hai scritto su il manifesto intitolato Non è un paese per aspiranti martiri tu scrivi che Parelli e Lenoci erano “due studenti che non erano a scuola, e non erano lavoratori, morti su un lavoro che non era un lavoro”: un “atroce paradosso” che “è uno degli esiti della trasformazione della scuola in un’istituzione del capitale disumano”. Dentro questo paradosso scuola/lavoro, possiamo davvero considerare Lorenzo e Giuseppe due “morti sul lavoro”?

Sono morti di scuola. È un fatto sconvolgente che non ha paragoni nella storia della scuola italiana, perlomeno in quella contemporanea dove l’obbligo è riuscito a combattere lo sfruttamento del lavoro minorile. Oggi non muoiono solo i lavoratori sui luoghi di lavoro o “in itinere”, cioè per raggiungere il luogo di lavoro o per lavori che si svolgono in strada, ma anche gli studenti in formazione al lavoro. I due aspetti vanno considerati insieme, purtroppo. Oggi si muore per lavoro e anche per scuola.

(Pulp) Le mobilitazioni studentesche, partite sin dalla morte di Parelli e continuate dopo la morte di Lenoci hanno mostrato una forza crescente, nonostante le tante forme di repressione subite: sia a livello disciplinare, all’interno degli istituti scolastici, sia in piazza con i sempre prodighi manganelli delle cosiddette forze dell’ordine. Cosa ne pensi di questo movimento? Possiamo pensare che la sua inesorabilità si stia nutrendo anche dei tanti disagi che hanno colpito giovani e giovanissimi nei due anni di pandemia con le sue chiusure e restrizioni?

Non c’è dubbio che sia così. Questo movimento si è formato negli ultimi mesi con le 50 occupazioni a Roma durante l’autunno e le oltre 40 di Torino dopo la morte di Lorenzo e Giuseppe. E a Milano le scuole continuano a occupare a turnazione. Lo stesso è accaduto in alcuni casi a Napoli. Tra ottobre e novembre 2021 gli studenti hanno già manifestato in massa contro la strumentalizzazione fatta sia dal governo “Conte 2” che da quello “Draghi”, che hanno adottato atteggiamenti opposti ma con gli stessi risultati. L’anno scorso, come quest’anno, non è stato fatto nulla di strutturale. Tranne una cosa: saranno stanziati miliardi del Piano di ripresa e resilienza per costruire asili ma non per assumere nuovi educatori e docenti. E quelli già assunti non avranno aumenti salariali per recuperare anni di blocco e umiliazione. Tra gennaio e febbraio 2022 c’è stata una sollevazione degli studenti dopo la morte dei loro coetanei. Sono stati loro gli unici in questo paese ridotto a uno stato ignobile ad avere urlato il proprio sdegno.  “Sotto quella trave di 150 chili poteva trovarsi ciascuno di noi” hanno detto.   Questi studenti reagiscono contro chi vuole rendere tollerabile l’intollerabile. La loro è una lezione di cittadinanza politica.

(Pulp) Le morti sul lavoro in Italia sono state 1404 nel solo 2021. Parliamo di un paese nel quale il lavoro nero – che spesso sfugge a queste statistiche – è ancora largamente diffuso e condizioni di lavoro para-schiavistiche, come per esempio in agricoltura, sono ampiamente tollerate. Mi chiedo se in un contesto del genere, in fondo, le due morti di Lorenzo e Giuseppe non siano persino ‘ovvie’.

Quella che definisci “ovvietà” è il risultato di una costruzione sociale del senso comune. L’“ovvio” fa parte di un’organizzazione del dicibile e del visibile e risponde a un obiettivo: giustificare un assetto delle istituzioni e del mercato del lavoro che, per molteplici ragioni, non riesce a intervenire in maniera efficace per porre almeno un argine alle stragi del lavoro o allo sfruttamento in tutti gli ambiti, a cominciare dal caporalato nei campi. Il meccanismo dell’“ovvietà” lo abbiamo visto all’opera nelle tre settimane intercorse tra la morte di Lorenzo e quella di Giuseppe. La notizia è stata derubricata e risignificata attraverso l’eliminazione del suo carattere drammatico. Le morti sono rimaste quelle che, nel gergo giornalistico, si chiama “taglio di cronaca”. Dunque non come notizia di prima pagina sulla quale fare campagna e pretendere risposte e soluzioni immediate. Si è così innescata una reazione immunizzante rispetto al pubblico. Temo che questa impostazione renderà indifferente una realtà che invece è intollerabile. Stiamo davvero dicendo che nel computo quotidiano delle morti del lavoro bisognerà inserire anche gli adolescenti? Dobbiamo forse abituarci a queste e altre morti? Davanti a questi inquietanti interrogativi ci sono stati solo penosi balbettamenti. Un governo responsabile, capace di iniziativa politica, avrebbe bloccato tutto e annunciato una rivoluzione del sistema da fare partire da settembre. Sempre che ci sia la capacità. E purtroppo non mi sembra che ci sia. Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha annunciato “tavoli” con le regioni che hanno la competenza sulla formazione professionale o con il ministero del lavoro. Di solito queste iniziative si perdono nella nebbia. È un modo per annacquare senza affrontare i nodi strutturali dei problemi. In questo modo si arriva a pensare che le morti di scuola siano “eccezioni” da affrontare con prassi amministrative, expertise o consultazioni tra burocrazie.

(Pulp) Nella cronaca dei media mainstream è stato eccepito che, nel caso di Parelli e Lenoci, non si trattasse tecnicamente di “alternanza scuola lavoro”. E per quanto questo possa essere vero, non c’è dubbio che la questione linguistica e, dunque, immediatamente filosofica, sia centrale. L’alternanza scuola lavoro, che veniva normata nel 2005 come una richiesta individuale dello/della studente tra i 15 e i 18 anni, è divenuta obbligatoria con la cosiddetta “Buona scuola” del Governo Renzi (Legge 107/2015) all’interno di un quadro ideologico-normativo con lo sguardo fortemente rivolto all’ingresso del privato nella formazione pubblica. Poi, nel 2018, l’alternanza obbligatoria è stata dimezzata (oggi prevede 210 ore nei Professionali, 150 nei Tecnici e 90 nei Licei) e ridenominata “Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento” (PCTO). Il lavoro viene insomma integrato con le famigerate “competenze” e con l’idea secondo la quale, come scrive il Ministero dell’Istruzione, occorra “rispondere alle esigenze dei nuovi sistemi economici” e sviluppare competenze ad “alto grado di trasferibilità”. Vale anche forse la pena ricordare che tra le “otto competenze chiave” individuate dal Consiglio europeo c’è la cosiddetta “competenza imprenditoriale”. Qual è la tua idea su questa ridenominazione linguistica in PCTO? Può essere collegata all’evoluzione dell’alternanza e alla morte dei due studenti?

La nuova definizione dell’alternanza scuola lavoro, e la conseguente riorganizzazione, sono state il risultato di una riflessione sui primi esperimenti”. Le scuole non riescono a collocare tutti i loro studenti in esperienze minimamente significative. Il progetto renziano era, e resta, insensato. Non è possibile impiegare tutti gli studenti – stiamo parlando di 1,5 milioni di persone ogni anno tra licei e tecnico-professionali – in esperienze indeterminate che assomigliano a stage o tirocini ma che nei fatti, e in termini giuridici, non sono né l’uno né l’altro. Nessuno ci aveva pensato prima, anche perché la scuola, e tutto il sistema dell’istruzione, sono percorsi da un fanatismo neoliberale che rende ciechi anche rispetto a considerazioni banali. Nessuno, nemmeno chi pensa che la scuola sia un’agenzia di lavoro interinale o della formazione professionale permanente, può pensare in maniera razionale di mantenere in vita un simile sistema. Da qui è nata l’esigenza di tagliare le ore, la principale novità di questo orrendo acronimo che suona come uno sputo: il P-C-T-O. I Cinque Stelle, che continuano anche in queste ore a spacciare questa modesta variazione come un modo per ascoltare quelli che li hanno votati nel 2018, dicono sciocchezze, come spesso gli capita. La sostanza della vecchia alternanza resta la stessa nei PCTO: la trasformazione dell’idea stessa di istruzione in trasmissione di “competenze”. Gli studenti sono considerati contenitori di abilità, pacchetti di nozioni, comportamenti da assumere e investire in un solo apparente apprendistato che dovrebbe educare all’occupabilità. È questa la principale “competenza” alla quale vengono disciplinati gli studenti in alternanza: essere occupabili, cioè disponibili a adeguarsi al mercato del lavoro e a rendersi concavi e convessi rispetto alle sue richieste. Va anche ricordato che essere “occupabile” non comporta alcun diritto all’occupazione che controbilancia il dovere di prestazione lavorativa gratuita richiesta in alcuni casi. Ciò che si chiama “alternanza scuola lavoro” non prepara a un lavoro specifico ma a una mentalità, quella di chi cerca un lavoro per lavoro, cioè il lavoro della ricerca del lavoro. Il progetto dell’alternanza intende fare sgocciolare tra gli studenti la mentalità diffusa in un mercato del lavoro terziarizzato e povero: l’occupazione è breve, pagata una miseria, senza tutele. La principale attività di milioni di persone è, e dovrà continuare a essere, quella di cercare il prossimo lavoro, oppure un altro lavoro che serva a integrare quello che non garantisce un reddito dignitoso. La scuola delle “competenze” è una scuola che ha associato i tropismi del discorso della “meritocrazia” alle esigenze del sistema di valutazione del lavoratore performativo in una società “post-fordista” che ha bisogno di manodopera flessibile, autonoma e capace di organizzare la propria e altrui precarietà.

(Pulp) Come hanno obiettato da alcuni anche in settori critici – e penso qui a un ottimo intervento di Livio Ciappetta su Jacobin Italia, bisognerebbe (ri)pensare all’alternanza scuola lavoro anche in relazione a “programmi, progetti e aspirazioni degli studenti, dai centri di formazione professionale” in quei Centri che provano a coniugare obbligo scolastico e formazione professionale. Ciappetta chiede di riconoscere negli/nelle studenti della formazione professionale “una tensione verso il mondo del lavoro molto presente ed evidente” e dove qualsiasi formazione teorica o critica è vista come un ostacolo alla vita. Pensi sia possibile tenere insieme le due cose in determinati contesti? O si tratta di una persistente malcelata disuguaglianza di classe?

In questo tipo di scuola neoliberale mi pare difficile coniugare la tensione verso il mondo e l’aspirazione a creare un lavoro dignitoso convergente con gli interessi e le passioni dei singoli. L’alternanza scuola lavoro non è riformabile, se non nel senso di coloro che l’hanno pensata e continueranno a cambiarla, peggiorandola o rendendola sempre meno significativa di quello che è già oggi. Rifletterei piuttosto sul modo in cui sono rese invisibili le diseguaglianze di classe da tutta la scuola italiana. L’alternanza scuola lavoro è uno di questi modi. Il classismo non è certo diminuito come invece sosteneva qualche fanatico già nel 2015. Tra l’altro lo conferma il nuovo assetto dei PCTO: 90 ore nel triennio finale per i licei, 150 per gli istituti tecnici e 210 per gli istituti professionali. Ai primi meno alternanza, ai secondi di più. L’impianto resta lo stesso. Se a qualcosa è servita l’alternanza è servita a fare una campagna populista contro i licei e i loro studenti ai quali è stata attribuita l’identità di “bamboccioni”, sfaccendati, quelli del divano che non si sporcano le mani con la “vera vita”. Insomma è stato un modo per fare pagare ai singoli, in questo caso i liceali, una singolare forma di classismo rovesciato, quello di chi li considera “fighetti” che “non si sporcano le mani”. Al di là di queste chiacchiere classiste sta di fatto che l’assetto resta quello deciso dalla riforma Gentile.

(Pulp) Un preciso e toccante reportage di Annalisa Camilli uscito su L’Essenziale del 29 gennaio 2022, Morire di scuola e di lavoro a 18 anni, ci invita ad interpretare queste morti dentro una più ampia questione politico-sociale nella quale la Scuola come istituzione non risponde ad alcuna aspirazione dei e delle giovani cittadine di questo Paese. Anzi, i loro desideri e sogni vengono più spesso risucchiati dalla possibilità di un salario purché sia, all’interno di sistemi produttivi assolutamente inaffidabili dal punto di vista della sicurezza sul lavoro. Ma la Scuola è davvero così inutile?

Non direi che questa scuola sia inutile in generale. È utile per chi l’ha indotta ad assomigliare al progetto neoliberale che ha aggravato i problemi della scuola precedente, rendendoli spesso irrisolvibili. La reazione che descrivi è la logica conseguenza di vent’anni e più di egemonia neoliberale su tutta la società, non solo sulla scuola. Per paradosso, ma nemmeno tanto, mi sembra anzi una reazione salutare. Il problema semmai è l’alternativa. Se è un “salario purchessia”, come dici tu, ad esempio, lo è senz’altro.  Ecco, chi intende contrastare sia la scuola disciplinare che quella neoliberale dovrebbe preoccuparsi di dimostrare che esiste un’alternativa. Ad esempio un reddito di base che non esclude né una riforma del Welfare, né la scelta di un’educazione e di una formazione all’altezza, non quella diretta ai “lavori di merda”. Come farlo? Beh si potrebbe iniziare a chiedere l’estensione di quella truffa semantica che in Italia hanno chiamato “reddito di cittadinanza” che nulla ha a che vedere con il “reddito di cittadinanza”. Lo chiedono alcune associazioni studentesche da anni, nel diritto allo studio va compreso anche un “reddito di formazione”’ E perché non finanziarlo come una forma di reddito di base? Insomma cerchiamo di essere forti, politici e propositivi.  Smettiamola con questi toni da fine del mondo, da collasso, da catastrofe. Anche perché sono funzionali alla riproduzione dell’egemonia neoliberale.

(Pulp) A fare da triste rovescio delle mobilitazioni studentesche c’è la quasi totale assenza di mobilitazioni del personale docente dell’Istruzione Secondaria di secondo grado (anche se ti segnalo questo interessante documento emerso da un gruppo di docenti chiamato “Collettivo per la Scuola degli Anni ’20”: Le preoccupazioni degli studenti sono quelle di noi docenti ). Una categoria che, del resto – e lo dico da insegnante –, è persino incapace di mobilitazioni di tipo banalmente corporativo per l’aumento salariale. Mi chiedo se la profonda trasformazione delle società occidentali in senso fortemente neoliberistico non abbia segnato questa categoria di lavoratori e lavoratrici vecchia e anche un po’ stanca. Lavoratori e lavoratrici che non si sono mai davvero opposti alla nascita dell’alternanza obbligatoria e che anzi tendono stancamente a riprodurre i mantra dell’inutilità di una formazione troppo ‘astratta’ e scollegata dal moloch del Mercato del lavoro.

L’individualismo, il disfattismo, la delega, il ripiegamento su di sé, il menefreghismo sono gli atteggiamenti ricorrenti in tutti i settori della società, a cominciare dal ceto medio impoverito, tanto nel pubblico quanto nel privato. E non solo in Italia. Certo in questo paese si avverte una drammatica e violenta disaffezione verso il mondo. Ma vorrei anche dire che bisogna cercare di interpretare questa situazione. E se fosse, ad esempio, una reazione rispetto alla mancanza di alternativa? E se fosse la silenziosa protesta contro un’assenza di progetto culturale credibile e opposto alla strabordante e cinica egemonia neoliberale? Non lo sappiamo con precisione anche perché spesso vediamo solo un lato delle cose. Quello che il sistema vuole farci vedere. Ma questa non dovrebbe essere la conclusione di chi sente una necessità di opporsi. Possiamo impegnarci a organizzare una risposta anche con i poveri mezzi a disposizione e una generosità che spesso manca. Associamoci almeno per costruire le trincee della resistenza. Facciamo guerra di posizione. Ad esempio possiamo ripartire dall’idea di “scuola unitaria” formulata inizialmente da Antonio Gramsci. Ne ho scritto in un commento sul manifesto qualche tempo fa . Con questa nozione Gramsci intendeva una scuola capace di garantire la crescita di una capacità critica di massa, un’autonomia intellettuale ed esistenziale capace di orientarsi e autodeterminarsi in maniera indipendente. Per rendere possibile questo bisogna partire dal rapporto tra scuola e democrazia, non da quello tra scuola e mercato del lavoro. Vogliamo o no iniziare a parlare di una scuola democratica, sottraendo questo concetto agli apprendisti stregoni delle pedagogie neoliberali? Parliamo di un’istituzione che si concepisce in maniera universale e che contrasta il classismo come l’autoritarismo. Anche su questo Gramsci è molto utile. Egli ha proposto la distinzione tra scuola attiva e scuola creativa. La scuola attiva mira a emancipare lo studente (e il docente) dalla passività attraverso la cooperazione, l’impegno e la felicità degli incontri con gli altri, con l’ignoto, con la pratica e la conoscenza. La scuola creativa è il coronamento di questo percorso. Non significa scuola di «inventori e scopritori» di fatti ed argomenti originali in senso assoluto, ma scuola in cui la «ricezione» di saperi e prassi anche complesse avviene attraverso un’educazione, e un’auto-educazione, spontanee e autonome in cui il maestro e il docente esercitano specialmente una funzione che Gramsci definisce anche “guida amichevole”. Ecco, l’amicizia, e non la competizione. L’amicizia, e non la compiaciuta complicità che rischia di trasformarsi in un insidioso paternalismo. La sfida e il gioco, non l’invito a possedere il “merito”. Parliamo di una scuola attiva e creativa dell’intelligenza di massa dove scoprire la vita da se stessi, in virtù di un gigantesco e non scontato lavoro in comune che si rinnova sempre, di giorno in giorno, di anno in anno. Un lavoro che viene ripensato in continuazione da chi lo fa in classe e lotta contro le incrostazioni, le violenze, i moralismi. L’obiettivo? Diciamolo ancora con Gramsci: scoprire che una verità è sempre una «creazione», anche se la verità è vecchia: in ogni modo si entra nella fase intellettuale in cui si possono scoprire verità nuove, poiché da se stessi si è raggiunta la conoscenza. Sulla base di questa impostazione comune a tutti poi è possibile anche scegliersi cosa si può o si vuole fare, a scuola e altrove. Senza per questo irrigidire i percorsi, impedendo di tornare indietro o cambiare per diventare altrimenti. In un progetto di scuola simile queste ideologie neoliberali sarebbero ridicolizzate o perlomeno combattute.

Riferimenti

Annalisa Camilli, Morire di scuola e di lavoro a 18 anni, in L’Essenziale, 29 gennaio 2022.

Livio Ciappetta, In bilico tra formazione e lavoro, 4 febbraio 2022.

Roberto Ciccarelli, Rovesciare l’alternanza scuola lavoro con Gramsci.

Roberto Ciccarelli, È morto uno studente di 16 anni durante la formazione al lavoro, 15 febbraio 2022.

Roberto Ciccarelli, Non è un paese per aspiranti martiri, , 16 febbraio 2022.

Collettivo per la Scuola degli Anni ’20, Le preoccupazioni degli studenti sono quelle di noi docenti, 18 febbraio 2022.

Giansandro Merli, Alternanza scuola-lavoro, un morto e tanti feriti, 23 gennaio 2022.

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento, 8 ottobre 2019.

Luca Redolfi, Abolire l’alternanza scuola-lavoro, 3 febbraio 2022.