Sconfinamenti nell’Ottocento nordico
di ELIO GRASSO
Profondo nord della Svezia, dove lo sconfinamento non è soltanto spaziale, il cibo è bislacco e la forma del mondo terribilmente terrestre ma arricchita di tipicità e circostanze pressoché aliene. Avete presente la serie TV Fortitude? Non è soltanto merito (o torto) del ghiaccio, l’attenzione degli uomini va prima di tutto alle bestie domestiche o selvagge e in secondo tempo all’ondeggiare dei fianchi femminili. Ma sono sguardi boreali, attenti a ognuna delle cose racchiuse in quella specie di cupola siderale.
Mikael Niemi gestisce il tedio nativo, lontano dagli stilemi bergmaniani saturi talvolta d’imbarazzi melensi, il suo romanzo è colmo di nomi della tradizione, assunzioni metodiche e esistenze brandite come accette. Negli anni di mezzo di questo Ottocento nordico il pastore distrettuale, Læstadius, ha le caratteristiche di uno sciamano adulto e duro di carattere, dispone le conoscenze acquisite verso il popolo e contro i poteri libertini del luogo. Ogni pianta gli parla, ogni traccia gli racconta origine e storia, e l’istruzione impartita a un ragazzetto di etnia sami (vale a dire lappone) dal passato tragico non è dettaglio da poco. C’è spazio anche per una corsa verso la santa crociata locale, mentre tutto fa pensare che il giovane adottato sia qualcosa di più che l’autistico rappresentante dello sciamanesimo in erba. Il suo nome vero è Jussi ma da tutti viene nominato con il dispregiativo noaidi.
La trama si apre a ulteriori misteri, dopo l’introduzione a quel lontano mondo di geografie e ciclicità temporali dilatate: nei terreni acquitrinosi soggiornano animali forse pericolosi (e forse no), ma non più di certi abitanti dallo sguardo feroce. Jussi ascolta, Jussi non parla ma conosce la spinta dei lombi al passaggio della ragazza amata. Si nutre di poco cibo, mai richiesto, alza gli occhi al cielo dove stanno le stelle indicate dal suo maestro. Una giovane serva viene trovata morta nei boschi, che lì sembrano eterni. Un orso, un assassino, un alieno mostruoso? Il pastore indaga, mentre le antipatie dilagano su strade e sentieri.
Non troviamo niente di civettuolo nelle pagine del racconto, siamo in luoghi dove ogni parola è tutto meno che soffice. Il ragazzo medita sul proprio stare ancorato al tempo, teme di scomparire senza lasciar traccia, sente allargarsi il debito verso Læstadius. Si sorprende, e noi con lui, davanti alle decifrazioni in perfetto stile Holmes (Sherlock, certo) stilate dal pastore, mentre analizza segni sugli alberi e le orme lasciate sul luogo del delitto. Svela arcani che appaiono chiari soltanto a lui. “Usa il cervello”, proclama continuamente al ragazzo trasformato in un tragico dr. Watson. Certe caratteristiche sono universali, ma lì intorno ricordiamo che l’acqua è nera, gli oggetti sono grigi, e ovunque aleggia l’odore di desideri non proprio innocenti. Le icone fisiologiche abbondano, le mammelle sono spesso gonfie, ogni funzione corporale vuol dire altro da quanto immagina il senso comune, le arguzie dell’indagine si scontrano con l’abbondanza di ottusità cerebrali. Dove sta la patologia dentro il misticismo artico?
Potrà rispondere il pastore Læstadius, biologo e letterato visionario capace di leggere quel che i denti di un orso gli suggeriscono? O quel che gli abitanti del paese, al contrario, gli nascondono? Nel romanzo di Niemi i dettagli fisici definiscono l’acume necessario a condurre l’indagine, a riempire le esistenze di un senso. La percezione del mistero abbonda quando incrocia, con dettagli sottili e talvolta sanguinari, gli abitanti del distretto prima di tutto alle prese con le rudezze climatiche e psichiche. È il lato selvaggio del mondo, che a nord del sessantesimo parallelo ancora sa incantare con le sue storie dai finali mirabili. Non è libro di cui possa riassumersi l’evolversi dei fatti, qui è sufficiente far emergere dal fondale i suoni, le spavalderie, la ricchezza d’ingegno, la montante audacia espressa da fenomeni tipicamente tribali. Su tutto poi aleggia l’ala oscura del diavolo, l’enormità della sua brama di possesso: niente di mistico, se mai l’aura spietata verso l’umano gregge che tanta letteratura medievale (ripresa in epoca moderna) ha espresso ferendo quantità di anime belle.
E poi si sa, a certe latitudini basta un bacio per sparire per sempre nel silenzio invernale. Basta questo per lasciarsi cogliere dall’imprevedibilità di un libro che ha dentro di sé l’epica di personaggi storici, e il riscatto di minoranze rimaste per secoli ai margini del mondo.
Il (rim)orso dell’assassino
di VALENTINA MARCOLI
Un libro sorprendente, ecco quello attende il lettore di Cucinare un orso. Ci si scordi delle narrazioni lente e cariche di descrizioni tipiche dell’estremo nord: una strana sensazione di calore pervade infatti queste cinquecento pagine in cui succedono un bel po’ di cose. È dunque un romanzo ben complesso quello che ci si para dinnanzi, reso ancor più particolare dal fondamento storico da cui trae ispirazione. Il pastore Lars Levi Laestadius è infatti realmente esistito come figura emblematica del movimento religioso chiamato Risveglio, che nel periodo in cui è ambientata la nostra storia – estate 1852 – vive un momento di impopolarità, in quanto si prefiggeva di avvicinare quanti più contadini possibili alle Sacre Scritture attraverso un processo di alfabetizzazione e purificazione da alcol e sesso. Potete immaginare quindi come in un territorio ostile per quanto caratterizzato da paesaggi mozzafiato e dalle giornate lunghe e noiose, fosse in realtà molto più semplice lasciarsi andare ad abusi di quel genere senza sensi di colpa, solo perché quella era la norma.
In tutto questo il pastore giunge a Kengis dove accoglie in casa, un giovane vagabondo di origini sami, cioè lapponi (proprio come – guarda caso – il pastore stesso); lo sfama, lo istruisce e gli conferisce perfino un nome, Jussi, e un’inscrizione al registro parrocchiale. Per lui Jussi diventa un figlio, ne diventa il mentore e cerca di trasferirgli tutta la sua conoscenza nel campo delle erbe e delle piante, accompagnandolo in lunghe passeggiate dove è d’obbligo l’osservazione attenta ai dettagli.
Tutto procede per il verso giusto quando improvvisamente viene segnalata la sparizione di una giovane serva, Helga, e il giudice distrettuale Brahe, con il fido assistente – oggi diremmo leccapiedi – Michelsson, arrivando sul luogo del misfatto subito pensano all’attacco di un orso. Il pastore però non ne è convinto e mediante un’attenta analisi della scena del crimine con l’aiuto di Jussi (meglio che i RIS di Parma), raccoglie indizi e prove che lo portano sempre più alla naturale convinzione che l’orso sia umano e che si aggiri libero pronto a colpire nuovamente. Viene promessa una ricompensa per la cattura dell’animale, intanto il corpo di Helga viene rinvenuto e quando viene ucciso un esemplare di orso per buona pace di tutti si ritorna alla vita di sempre, sicuri di aver fatto giustizia.
A scombussolare le carte in tavola, un altro tentato assassinio, stavolta nei riguardi di Jolina, un’altra giovane serva, in prima battuta andato a vuoto – ma come si dice, tentar non nuoce e allora ecco che ci ritroviamo con un secondo cadavere. E poi un terzo, ma (senza voler svelare della trama più di quanto già fatto finora) la scrittura magnetica di Niemi ci porta fino alla risoluzione del caso con uno stratagemma geniale, passando per tecniche d’indagine innovative come la dagherrotipia e lo studio delle impronte papillari come uno Sherlock Holmes ante litteram, e per tematiche filosofiche al limite della provocazione.
Un romanzo impossibile da etichettare ma assolutamente da leggere; è stato paragonato per certe assonanze a Il nome della rosa, e non si può che confermare che certe atmosfere le si possa certamente ritrovare anche nel lavoro di Niemi. Nota importante l’epilogo in cui si esplicano determinati punti della struttura del romanzo, in particolare l’affascinante storia dei registri parrocchiali redatti dal pastore e conservati in un paesino a un tiro di schioppo dal paese natio dell’autore. Nulla accade per caso!