A prezzo di parole. Amedeo Giacomini

Ci voleva il coraggio di un piccolo editore raffinato come Quodlibet per raccogliere in un unico volume la più celebre silloge poetica (Presumût Unviâr - “Presunto Inverno”) il geniale “trattatello” venatorio L’arte dell’andar per uccelli con vischio e ben ventisette liriche inedite di una personalità eclettica e sempre dimenticata come il friulano Amedeo Giacomini (1939-2006)

Per quanti hanno avuto la fortuna di conoscere in vita Amedeo Giacomini  ogni nuova edizione o ristampa dei suoi scritti appare come una temporanea rivincita sull’oblio, un modesto atto di giustizia postuma contro quanti vorrebbero relegare la sua figura tra gli autori “minori” ed esclusivamente “dialettali” del secondo Novecento, mentre il suo Friuli pare averlo silenziosamente condannato a un’ignobile damnatio memoriae. 

Eppure Giacomini fu scrittore apollineo quanto personaggio dionisiaco: enfant prodige nella sperimentazione narrativa di fine anni Sessanta[1] e poeta malinconico durante la sua maturità in lingua friulana, trascorsa tra innumerevoli sigarette e “tagli”[2] di vino.

Giacomini seppe essere marxista per indole, esistenzialista di formazione e poeta votato alla sconfitta, costantemente attratto dal “nulla” di Sartre e di Heidegger, ma al tempo stesso in perenne conflitto con quei modelli antropologici che riservavano alle terre friulane il ruolo di appendice laboriosa, infaticabile e remissiva dell’estremo oriente nazionale.

A differenza di molti altri intellettuali del suo tempo, soprattutto di quelli provenienti dall’anonimato della provincia, Giacomini non ebbe mai la scaltrezza, nè la malizia per ricavarsi una notorietà di comodo o una comfort zone dopo l’ampio successo ottenuto con le sue prime opere in prosa, in versi[3] e in traduzione[4].

Perciò quando il Friuli fu distrutto e traumatizzato dal terribile terremoto del maggio 1976, volle cogliere immediatamente il senso profondo di quella lacerazione attraverso una scelta radicale: scrivere e pubblicare per la prima volta nella sua vita versi in friulano. Lo fece quando l’idioma non era ancora assurto al rango di lingua; lo fece utilizzando la variante diatopica del suo paese natale, Varmo, suscitando le ire dei puristi e dei conservatori della koinè, che la giudicarono una sorta di tradimento.

Per queste ragioni, la scelta di raccogliere in un volume unico la più celebre silloge poetica di Giacomini (Presumût Unviâr – “Presunto Inverno” 1984/1986, uscita nel 1987 per i Libri Scheiwiller), il suo geniale “trattatello” venatorio L’arte dell’andar per uccelli con vischio (dato alle stampe nel 1969 sempre per Scheiwiller) e ben ventisette liriche inedite può sembrare anomala, impulsiva, frutto di un cut up estemporaneo più che di un progetto coerente.

Eppure questa scelta originale rivela tutto il profondo coraggio di un piccolo editore raffinato come Quodlibet: vinto lo scetticismo iniziale e le eventuali difficoltà di lettura della lingua friulana, ciascuno potrà percepire la personalità eclettica di Medeo (Giacomini si faceva familiarmente chiamare così) nella sua autentica poliedricità proprio grazie all’accorpamento di opere estremamente differenti per tema, per stile e per epoca.

Copertina dell’edizione originale di Presumut Unviâr (1987)

Presumût Unviâr è fin dal titolo la raccolta di versi nella quale Giacomini fonde l’intimismo, le nostalgie, la malinconia e l’inquietudine personale in un sublime spleen friulano. Nelle poesie che la compongono tanto il mondo naturale quanto quello animale sono interamente assorbiti dal senso immane della perdita, nel quale ogni forma fisica diventa fragile rimembranza (come ogni luna diventa leopardiana).

Il tempo poetico dei componimenti si declina interamente nel passato delle illusioni, delle passioni, dell’infanzia: ed è un passato che conduce irreversibilmente a un presente fatto di di vanità – secondo la lezione di Qoelet – a un futuro di smarrimenti o a un eterno ritorno ai luoghi della propria nascita, tra fiumi e casolari.

Giacomini spazia nel metro dei versi quanto nelle loro strutture, quasi sentisse la necessità impellente di non ripetersi per non far affiorare lo spettro della noia. Il poeta qui vuole essere spettatore della propria consunzione, vuole intuirla e farne coscienza ancor prima di viverla e metterla su carta, con la consapevolezza che nemmeno nella scrittura – da sempre fondatrice della storia – esiste più alcuna forma di salvezza.

Prime di fâti barcje
o danse di òmins peâts
di consegnâ a miò fi,
J’ voi squarâti, sfuej,
e marcati un triangul tal mies,
magari il pi esat, par viodi
se ancjemò la forme ‘a tire ae perfession.
E j’ voi tormentâ i petuj di une rôse
– di un garoful magari, par restà
Tai lìmits di une ghenghe di puisìe –
e colorâ il triangul cul colôr di un vôli
e stâ a cjalâlu un pôc, batint li’ seis,
ferme la pene, cujètis li’ Mans
in chest tasê di òris sense fons,
po scjassolâmi e scrivi: JO
a lètari’ gràndis e ridi di mè,
neâti a miò fi par pudor,
strènziti in pùin e pò butati…

 Prima di farti barca / o danza di uomini allacciati / da consegnare a mio figlio, / voglio squadrarti, foglio, / e inciderti un triangolo nel mezzo, / magari il più esatto, per vedere / se tende ancora la forma a perfezione. / E voglio tormentare i petali di un fiore / – di una rosa magari, per restare / nei limiti di un gergo di poesia – / e colorare il triangolo del colore di un occhio / e stare a guardarlo un poco, battendo le ciglia, / ferma la penna, quiete le mani / in questo silenzio d’ore senza fondo, / poi scuotermi e scrivere: IO / a lettere grandi e ridere di me, / negarti a mio figlio per pudore, / stringerti in pugno e poi gettarti… 

I critici sono soliti parlare di “opera della maturità” quando ritengono che un autore abbia raggiunto il vertice della propria poetica. Il problema esegetico è che tale “maturità” viene generalmente individuata a posteriori, mai immediatamente, e quasi sempre sulla base di parametri che vanno dal successo del titolo in essere al destino delle opere successive.

Per Presumût Unviâr possiamo invece parlare ossimoricamente di una “maturità ingenua”: Giacomini aveva certamente coltivato una propria, personale illusione di rinascita e ricostruzione dalle rovine del terremoto di dieci anni prima, sublimandola nell’utilizzo poetico di un friulano volutamente distante nella forma e nei soggetti da quello edenico di Pasolini[5].

Fu quindi un tentativo politico, quello di Giacomini, parallelo alle centinaia di esperimenti di autogestione, di organizzazione territoriale, di metodologia associativa che il Friuli seppe realizzare nella breve stagione dell’emergenza e del dolore.

Dieci anni dopo, nel 1987, le rovine del terremoto paiono aver surclassato ogni utopia, giungendo nei meandri più reconditi della vita con il loro vuoto e i loro echi.

Tra le innumerevoli manifestazioni e assemblee organizzate dalle popolazioni terremotate, molte furono dedicate alla richiesta di una vera università per la città di Udine (fino ad allora sede staccata dell’università di Trieste).
L’università venne poi inaugurata il 1 novembre 1978.

A riportarci indietro nel tempo, è il “trattatello” L’arte dell’andar per uccelli con vischio, uno strano frutto del ’68 che Giacomini volle dedicare non agli autori di simili scritti venatori d’epoca latina e romanza, bensì alla memoria di Ernesto Che Guevara, a rivendicare anche in questo caso il carattere politico dell’opera culturale.

Il saggio si fonda sul rapporto profondo dell’uomo con la natura, i boschi, le selve – molto simile a quello spesso descritto dal rivoluzionario argentino per teorizzare la guerra di guerriglia.

È un resoconto fatto di ascolti, di attese, di percezioni e di rispetto, nel quale per la prima volta vengono catalogate tecniche e metodi artigianali di cattura che oggi definiremo “ecologici” e che fino ad allora venivano trasmessi per eredità d’esperienza.

La cifra stilistica dell’opera, però, è il linguaggio aulico, forbito, scientifico, che diventa enciclopedico nelle numerose “chiose” ai singoli capitoli, dove Giacomini confronta spesso l’attività venatoria dei suoi maestri friulani con la tradizione letteraria del passato.

Metodico nelle descrizioni e nei particolari, con il supporto dei disegni di Luigi Zuccheri, il trattatello non fa mai dell’autore un guardaboschi o un ornitologo: l’arte venatoria fondata sull’osservazione è sempre l’incipit di una successiva riflessione sulla dimensione umana e sulle sue nude virtù

Il vero appassionato s’affida più volentieri alla propria bravura. La mostrerà, in primo luogo, nella scelta dei giorni buoni, per la qual cosa occorre sapienza del tempo e delle stagioni. Si sa dall’odore dell’aria se un giorno vale e non v’è altro mezzo per stabilirlo (p. 102).

Ugualmente nobili e intensi sono gli ultimi capitoli dell’opera, dedicati alle maggiori tipologie di uccelli da catturare.

Tra queste, Giacomini rivela una predilezione particolare per il pettirosso

Disarmato nella sua brama di saper ciò che accade, disarmante nella delicata sua grazia. E’ un uccello diverso da tutti gli altri: lo si direbbe uscito dalle mani d’un pittore inesperto o bambino, e poichè si parla di lui fin dai tempi più antichi, io credo esser egli la prova, il bozzetto da cui l’artefice trasse poi tutta l’alata famiglia (p. 164)

Come detto in precedenza, A prezzo di parole ci riserva in conclusione il piacere realmente prezioso di poter leggere quelli che con ogni probabilità saranno gli ultimi inediti rinvenuti  nell’archivio privato di Amedeo Giacomini: dieci componimenti di inizio anni Novanta che avrebbero dovuto formare le Dieci poesie dal plenilunio e diciassette liriche senza alcuna notazione complessiva, la cui datazione viene collocata intorno alla fine degli anni Settanta.

Anche qui, in questa “distanza storica” tra le poesie all’interno della “distanza cronologica” delle opere raccolte, il lettore più attento avrà l’occasione di misurarsi con l’evoluzione del verso e della semantica di Giacomini – al netto delle consuete difficoltà d’approccio verso l’originale friulano.

Riporto solo due brevi esempi, significativi di entrambe le epoche.

Tra i versi risalenti alla fine degli anni Settanta c’è un poemetto a stanze numerate intitolato Friûl nel quale Giacomini esprime palesemente il fallimento nella rigenerazione della sua terra e dei luoghi natii dopo il terremoto: fallimento che, lo dicevamo, fa del friulano scelto dal poeta la lingua di una sconfitta.

… E ‘i dovares cjantâti,
fàti paîs, riviere,
come di un frut
blanc d’aghis tùrgulis

[…]

ma mi tocje vaîti,
mió borc di pustotis e blavârs,
mê muarte panse,
muarte di abort,
là che fîs di laris
ti còpin l’anime,
e prin, par pôre,
ancje l’ingjenue lenghe
che jo, nemâl peât,
m’incagnìs a pastrocjâ

…. E dovrei cantarti / farti paese, riviera, / come un bambino / bianco d’acque mosse dalla burrasca […] ma mi tocca piangerti / mio borgo di terre sterili e distese di mais / mio morto ventre, / morto d’aborto, /  là dove i figli dei ladri / ti uccidono l’anima, / e prima, per paura, / anche l’ingenua lingua / che io, animale aggiogato, / mi accanisco a pasticciare. 

Ed ecco che nelle liriche degli anni Novanta gli echi di questa disfatta (sociale quanto linguistica) si traducono interamente nella frustrazione interna al poeta, come nei versi di Misdì (Mezzogiorno)

Aghe e piere, cjâr e grin:
peraulis ch’ ‘a no cjatin jessi
intal ràvost misdì,
tra formis vuedis
di un parsè, di un come
mi soi risolt a contizalis…

L’estri gnarvôs dai vues
al tente scats di lusjarte
tra ussei domâs
senze plui fuarze.

J polsi te ruane lun
savinmi fuèe ‘romai
ch’’a va tal vueit scorìnt la vite,
Sumiôs paltan!…

Acqua e preghiera, carne e grembo: / parole che non trovano essere / nel sanguigno mezzogiorno, / tra forme vuote / di un perchè, di un come / mi sono risolto a computarle… / L’estro nervoso delle ossa / tento scatti di lucertola / tra uccelli domati / senza più forza. / Riposo nella luce rovente / sapendomi ormai foglia / che va nel vuoto scorrendo la vita, / sognante pantano!… 

NOTE

[1] Il romanzo Manovre pubblicato da Rizzoli nel 1968 divenne un caso letterario sia per lo stile che per il soggetto (la militarizzazione del Friuli e il suo impatto esistenziale)

[2]  Il bicchiere di vino per antonomasia in lingua friulana è detto taj, comunemente italianizzato in taglio

[3] La vita artificiale (Rebellato editore, 1968); Incostanza di Narciso (Scheiwiller, 1973)

[4]  Terra amata del Premio Nobel J.M. Le Clezio, tradotto da Giacomini per Rizzoli nel 1969

[5]  Nella Breve nota biografica della raccolta Antologia Privata (MobyDick, 1997) Giacomini parla espressamente di “illusioni edeniche” in merito al mondo friulano rappresentato nelle poesie di Pier Paolo Pasolini.