Le streghe di Manningtree è un romanzo fatto innanzitutto di sensazioni. Ora, chiudete gli occhi e avventuratevi con l’immaginazione nella campagna inglese del diciassettesimo secolo. L’Inghilterra è impegnata in una guerra civile e segnata da carestie che razionano il cibo in tavola. Le notti sembrano fatte di gelo, uomini e donne dormono in letti freddi, incapaci di scaldarsi al lume di candele dalle fiamme opache. La vita sembra spigolosa, dura, senza calore. Molti uomini sono chiamati alle armi, gli animali sembrano perire senza una giustificazione, le donne sentono la rivalità e sono una contro l’altra. È questa l’atmosfera che si respira tra le pagine del romanzo d’esordio dell’autrice inglese A.K. Blakemore, vincitore del Desmond Elliott Prize per il miglior esordio del Regno Unito e finalista al Costa First Novel Award e all’RSL Ondaatje Prize.
Nel 1643 Rebecca West non ha nemmeno vent’anni e può contare su una madre chiacchierona e ubriacona, un padre defunto, un paesino – Manningtree – dove tutti si conoscono e le vedove abbondano, un’attrazione fatale travestita da amore e un gatto. Rebecca si sente diversa e fuori posto, ma rimane obbediente al fianco della madre e nasconde la mancanza di fede religiosa in silenzi prolungati – forse presagendo il clima di estremismo puritano che fermentava negli anni della prima rivoluzione inglese. La religione, infatti, conserva un ruolo importante – e distorto, corrotto quasi – nel corso dell’intera caccia alle streghe di Manningtree e, in generale, di tutta l’Inghilterra. L’Inquisitore, Matthew Hopkins, prendendo un verso della Bibbia – Esodo 22:18, non lascerai vivere la strega – ne fa il suo scudo di protezione, il suo lasciapassare, la sua giustificazione. Non tutto è oro ciò che luccica e nemmeno così nobile era l’operato di Hopkins che, pur di condannare le donne che aveva accusato, fece ricorso all’estorsione. Oramai a contare era la glorificazione, la reputazione, l’importanza della sua figura – non certo la verità e il bene divino del quale si riteneva il paladino. Anzi, fu piegando e rimodellando le Sacre Scritture a suo piacimento che riuscì a convincere il popolo della sua superiorità morale.
Con codesta estorsione Rebecca riesce a salvarsi. L’unica donna del suo gruppo, alla fine, ad essersi rivoltata contro le altre prigioniere ed essere riuscita a comprarsi la libertà, ma a quale prezzo? Quando cominciano ad accadere strani eventi a Manningtree – carestie, allucinazioni, malattie – il capro espiatorio viene individuato in un battito di ciglia. L’anziana donna Clarke, figlia di una donna già giustiziata per stregoneria anni prima, e tutte le donne che ruotano attorno a lei vengono trascinate in sotterfugi e congetture senza vie di fuga. Un velo di sollievo cade sugli uomini del paese – su tutta la popolazione dei vari villaggi che chiedono aiuto all’Inquisitore – perché ora sanno chi incolpare. Le donne vengono quindi imprigionate e poi giustiziate per impiccagione, poiché Rebecca decide di salvare sé stessa e proferire falsa testimonianza. Una cosa, tuttavia, decide di ometterla: la sua convinzione di aver effettivamente visto il diavolo. Arrivando alla fine del romanzo, viene da chiedersi quando un evento può considerarsi reale oppure solamente un’estensione del pensiero, un riflesso che diventa credenza, una sfumatura nella realtà. Il male si annida dove c’è superstizione, povertà, ignoranza – il bisogno di addossare le colpe a qualcuno, trovare un capro espiatorio.