Vivere con gli dèi è un libro colossale, non soltanto per il suo aspetto ponderoso, ma soprattutto perché si interroga su un aspetto fondamentale dell’esistenza umana: il complesso rapporto che individui e società istituiscono con il divino, con la fede, con il trascendente. In un’indagine capillare, ma mai pedissequa, Neil MacGregor mette a fuoco quell’insieme di credenze che nutrono un’identità e che vengono condivise da piccole comunità o da intere nazioni, dando forma a un modo di pensare e agire talvolta laico, talvolta orientato dalla religione.
Consapevole dei limiti del linguaggio, lo studioso sceglie come interlocutori del suo dialogo ideale gli oggetti, i rituali, i luoghi e le attività umane, per significare il nostro credere e appartenere, in un viaggio attraverso il tempo, fino al tentativo di definire ciò che siamo oggi. Un’attitudine alla ricerca e alla divulgazione, questa, che deriva a Neil MacGregor dalla sua carriera come storico dell’arte alla guida dei due più importanti musei britannici, la National Gallery e il British Museum. Il volume è costellato di fotografie variopinte dalle provenienze più disparate, opportunamente inserite nel discorso a suffragio delle tesi dell’autore, a testimonianza visivamente efficace dell’approccio trasversale e multiculturale al tema indagato.
Abbiamo un “pressante bisogno di narrazioni che diano un ordine ai nostri ricordi e alle nostre speranze, e forma e significato alle nostre vite individuali e collettive”, riflette l’autore, a partire da quella consapevolezza che viene dalla sociologia francese di inizio Novecento, per cui una società non può esistere senza un racconto che vada oltre l’immediato, che garantisca una speranza di futuro oltre se stessa. Il viaggio di MacGregor tra genti e credenze prende avvio dalle origini, dalle testimonianze disseminate nelle grotte nel cuore dell’Europa, e poi sconfina nei teatri della fede dall’altra parte della Terra, svela il potere delle immagini e il rifiuto dell’icona nella venerazione assoluta della parola, fa specchiare mono e politeismo, non teme di considerare persino lo scivoloso tema dell’intolleranza.
La pregnanza di questo studio – o, meglio, la sua rilevanza in un contesto segnato, almeno in Occidente, da un’ormai acquisita laicità – consiste nella volontà di porre l’accento sul rapporto tra religione e Stati, sui culti che costituiscono ancora oggi una forza propulsiva della politica, sui simboli dei credo che tuttora alimentano il dibattito pubblico. A volte si verifica un singolare cortocircuito tra spirituale e materiale: valga su tutti l’esempio della professione di fede stampata sui dollari statunitensi, ”In God we trust”, come presa di distanza, da parte degli Stati Uniti alla fine degli anni ’50, dall’ateismo dell’Unione Sovietica. Se la risoluzione della guerra fredda ci aveva assuefatti alla perdita di vigore della religione e al solo culto del benessere, oggi assistiamo attoniti a conflitti cruenti che partono da presupposti religiosi. “In forme che sessant’anni prima potevano a stento immaginarsi, le rassicuranti politiche della prosperità sono state sostituite in molte parti del mondo da retoriche e politiche identitarie, spesso violente, espresse con il linguaggio delle fedi”. La tesi di Neil MacGregor consiste nel ritenere che si tratti di un ritorno al precedente modello delle società umane.
La domanda che risuona tra le pagine riguarda la possibilità di “una comunanza universale senza con ciò negare le identità individuali”, la ricerca di un equilibrio in un universo “sempre più connesso e sempre più fragile”, l’aspirazione a parlare di un noi, elaborando un’interpretazione collettiva sull’esperienza del mondo. A tal proposito risulta significativa la fotografia posta nel controfrontespizio del volume, che ritrae l’alba sul Gange all’Harishchandra Ghat, a Varanasi, con i fedeli rivolti verso il sole nascente: un’immagine che restituisce l’attesa della luce, il senso di comunità, il bisogno di rinascita, auspicabilmente l’inizio di una nuova, comune storia.