Come sopravvivere a una famiglia americana cattolica, benpensante e terribilmente tirchia, in una casa che è praticamente un maniero medievale, gravati dalla consapevolezza di non essere figli dei propri genitori, ma di essere stati adottati, e per giunta in Corea? Certo la vita dei fratelli Moran sembra il ritratto dell’alienazione – e forse a una vita così non si sopravvive: il più giovane dei fratelli, infatti, il più posato e irreprensibile dei due, quello dal curriculum immacolato che non ha mai lasciato il fianco dei genitori, si suicida prima di compiere trent’anni. La sorella Helen, la voce narrante, decide di improvvisarsi detective per scoprire che cosa ha portato il fratello a gettarsi “a capofitto nell’abisso”.
Vedere Helen in azione è divertente e terrificante al tempo stesso: nessuno come lei riesce a disorientare chi le sta intorno con le sue affermazioni di abbagliante, enigmatica sincerità – talmente finte da sembrare vere, o talmente vere da sembrare finte – o a stordire con gesti fin troppo carichi di buona volontà: a causa una percezione della realtà totalmente idiosincratica e stralunata, Helen finisce per intossicare, letteralmente, il mondo circostante (come quando sistema i fiori per il funerale nei secchi del mocio per pulire, non accorgendosi che sono pieni di varechina, o quando avvelena i parenti con l’insetticida con cui ha inondato le piante in camera sua, pur di distruggere gli odiati parassiti).
A differenza del fratello, infatti, Helen tende a riempire di sé la bolla che la circonda, al punto che spesso chi la incontra non può evitare di storcere il naso di fronte al suo esasperato egocentrismo, alla sua presenza sempre così ingombrante e, viene da pensare, alla carenza di una reale empatia nei confronti del prossimo. Che cosa può capire questa schiacciasassi degli altri, e ancor più delle ragioni che hanno portato qualcuno a compiere un gesto così estremo ed enigmatico come il suicidio? Eppure a New York Helen è riuscita a rifarsi una vita proprio occupandosi del prossimo: giovani ai margini, che per lei sono “i miei ragazzi problematici”, mentre loro la chiamano “Sorella affidabilità”, sottolineando così ironicamente la sua abnegazione quasi monastica. Forse il suo segreto è proprio questo: buttarsi sempre a capofitto nelle cose, nella fattispecie offrendo sostegno a chi si è trovato a deviare dalla cosiddetta “normalità” – normalità in cui Helen non si è mai trovata a suo agio, e che forse per lei, coreana adottata in una famiglia americana decisamente atipica, non è mai veramente esistita. Helen la normalità, la pace la distrugge di continuo, anche se quasi sempre suo malgrado – come lei stessa ammette, la frase che pronuncia più spesso è quella che dà il titolo al romanzo, “Scusate il disturbo”, Sorry to disrupt the peace. Il fratello, invece, la pace l’ha cercata per tutta la vita: nel corso del romanzo Helen ricostruisce la sua propensione quasi patologica al mimetismo, ma anche le tracce di una ricerca di senso che svela sia il profondo, inquietante altruismo del ragazzo sia il suo bisogno – profondamente estraneo a Helen – di riscoprire le origini coreane. In questo modo, Scusate il disturbo ci spinge a chiederci che cosa significa capire veramente gli altri, e come conciliare la ricerca della propria identità con quello che gli altri si aspettano da noi. La vicenda del fratello di Helen – che significativamente resta anonimo – ci interroga anche sul reale significato del termine “empatia”, e sui paradossi che racchiude questo concetto così di moda anche nella narrativa contemporanea. Se davvero ci mettessimo sempre nei panni degli altri, che cosa resterebbe del nostro io? Che cosa resterebbe della nostra ricerca di senso? Qual è il prezzo da pagare in termini di identità? Se il nostro significato sono gli altri, cosa resta di noi? E soprattutto, come dice la stessa Helen, verso la fine del romanzo: “Come si fa a convivere con noi stessi?, mi domandai. Se c’era un modo, nessuno me l’ha mai rivelato. VIVERE E CONTINUARE A VIVERE, urlai”.
Scusate il disturbo propone un nuovo sguardo e nuove soluzioni per la letteratura contemporanea, e l’autrice si rivela una voce interessante, decisamente avvertita sul piano letterario, come dimostrano non solo le numerose citazioni puntualmente ricostruite dalla traduttrice, ma anche i numerosi riferimenti ai caposaldi del postmoderno, dove Cottrell sembra avere radici ben salde: ad esempio Helen, con la sua sensibilità stralunata, la fascinazione per le cose gettate dagli altri e la sua indagine inconcludente appare un personaggio a tratti austeriano o beckettiano. Il nume tutelare dichiarato dell’autrice, però, significativamente resta Robert Walser, celebre autore della Passeggiata e corifeo di una scrittura nomade e dissociata, aperta agli incontri più incongrui e sorprendenti – ragione in più per continuare a seguire la voce forte e atipica di Cottrell.