Quel che resta, dopo guerre e fratricidi, o oblii disperanti di opere che dovrebbero far parte dell’economia vitale della poesia – e dell’anima, a dispetto del comune pensare odierno. Basterebbe la breve nota iniziale di Antonella Anedda (poetessa che non si è mai risparmiata nel rendere visibile la speranza attraverso l’esercizio sul tempo, e dunque sugli anni e sulle geografie attraversate) a condurci sul terreno che fu di Paul Celan, nei suoi versi e nei suoi discorsi, ponendosi in dialogo con Simonide: un profluvio di domande (e risposte) fra di loro e parole da non perdere, dentro l’acido erosivo del Novecento fino al qui e ora dove la prevalenza dello spreco dovrebbe abbassare gli sguardi. La lingua in quel caso ha trasformato il sacro in una punta estrema di coraggio: Celan ha usato per i suoi scritti la stessa lingua degli aguzzini, degli assassini. Per scardinarne i congegni che obnubilano. E infine, per il poeta e i suoi lettori, non confondere la neve con sabbia.
Dimenticare è verbo che arriva da lontano, oggi ancor più getta pane nei nostri dintorni, confondendo chi realmente ha fame con coloro che gelidamente organizzano la realtà. Carson ha il metodo dalla sua parte, e slanci, e stanze per sé del tutto ripulite da vecchi sogni e vizi linguistici che non traghettano da nessuna parte. L’attenzione, mantenerla vigile, è quella lente che già in Cristina Campo disobbediva alla fragilità del ricordo. Si può essere grati alla lingua, quando questa è protetta e analizzata pagando il prezzo della solitudine. Nel caso di Celan, un prezzo perfino più alto. Una strada in salita che Carson fin da subito, nelle pagine introduttive di Economia dell’imperduto, percorre senza timore di consumarsi le suole: lo sguardo desidera fortemente focalizzare quanto va perso allorché le parole sono sprecate. Tradizione, o semplicemente bellezza, e abbondanza dilagante di parole forse sono nemici fra loro se si vuole arrivare alla verità. Ma lo scopo di chi vuole portate a futura memoria (anche in cambio di denaro, come per Simonide) la “merce” poetica non è soltanto mercantile ma si accomoda con precisione in un’economia dell’abbraccio, dello scambio d’amore, e concilia fra gli umani qualità e oggetti incompatibili.
Alienazioni? Certo, la lingua di Celan per Carson assomiglia a una traduzione, lui che a Parigi in esilio scrisse relazionandosi, da ebreo romeno, a una lingua diversa. “Io sono al di fuori”. Lo straniero ha per missione indicare, e far deflagrare, il linguaggio del Reich millenario che istituì il genocidio degli ebrei europei: da qui, per Carson, la necessità di far “esaurire” i significati. E rendere chiaro il rapporto stretto fra linguaggio e morte, a cui indirizzarono i nazisti come mai nessun altro. La negazione, in Simonide e Celan, è un potere del linguaggio, non della natura, è come se si contrapponesse un orologio – quanto rappresenta – all’ombra, ciò che misura a ciò che riduce irrimediabilmente il mondo. Carson: Celan nuotava in uno spazio buio, ma nello stesso tempo poteva modificare con l’uso la superficie della scrittura. Un linguaggio degli acidi, da lui praticato, misurava lo spazio che è dato, “spingendo all’estremo la negazione”: dalle millelingue al Genicht combinazione di Gedicht (“poesia”) e nicht (“non”). Nel luogo dove sono finite le parole sprecate (“nulla è perduto”?) può trarsi un segno, a cui allude infinite volte Celan, “perfettamente economico”, riferito a ciò che non si può dire: l’asterisco. Una stella esiste nel suo tempo. Una poesia già finita, che contiene l’asterisco al suo termine, è come il Sole nero stampato in nero. Il niente palesato, per essere conosciuto, nei campi di concentramento.