Milano, aprile 1977. Un gruppo di giovani militanti provenienti da diverse aree della Sinistra rivoluzionaria dà vita a quella che sembra l’ennesima fanzine di fantascienza. Le aspettative dei fan del genere, soprattutto di quelli pronti a gridare al sacrilegio di fronte alla contaminazione di fantastico e reale, vengono presto deluse. Dichiara infatti l’editoriale del primo numero:
Noi non siamo dei sostenitori della SF, non siamo dei fans.
Non vogliamo allargare, far crescere, propagandare la fantascienza.
VOGLIAMO DISTRUGGERLA.
Nel senso che vogliamo rompere questo involucro, questo contenitore che si chiama fantascienza, e dimostrare che ciò che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro che quello che si trova fuori.
È un pugno nello stomaco, non solo per l’asfitico mondo del fandom, infastidito perfino da discussioni all’acqua di rose come quella avvenuta all’inizio dello stesso anno sulla rivista Robot sulla politicità o meno della fantascienza, ma anche per molti di quei compagni appassionati del genere che credevano nell’importanza di un’egemonia culturale di sinistra anche (o soprattutto) all’interno dei generi di consumo più popolari[1]. Insieme a questa violenta presa di distanza dal mondo del fandom si scopre fin dall’inizio l’orizzonte ideologico del collettivo e, pur con le sue contraddizioni, l’uso che della fantascienza si vuole – o non si vuole – fare. La fantascienza come sguardo sulle illimitate possibilità della scienza o, peggio, come celebrazione delle sorti magnifiche e progressive dell’umanità, è rifiutata. Il genere deve essere uno “strumento per riappropriarsi della fantasia e del godimento”, “portavoce del principio di piacere”. L’obiettivo è la liberazione dei bisogni dell’uomo contro quelli del capitale.
È forse necessaria una premessa. Un’Ambigua Utopia (questo il nome che viene scelto per la rivista) parla molto, con creatività e passione di fantascienza: robot, mutanti e cyborg affollano le pagine, ed editoriali, approfondimenti e attente disamine del panorama editoriale italiano e americano colgono quasi sempre gli aspetti più vivi del dibattito di quegli anni. Molti contenuti sono utili ancora oggi per uno studio critico della narrativa di anticipazione. Gli argomenti e le discussioni in grado di interessare quegli appassionati del genere che hanno accettato “la rottura dell’involucro” non sono certo mancati. Fin dai primi numeri appare chiaro però che la fantascienza è un “pre-testo” per parlare d’altro. Come ricorda Antonio Caronia – membro del collettivo dall’estate del ’78 – nel suo ultimo intervento sulla storia di quell’esperienza,[2] Un’Ambigua Utopia non voleva stare dentro il fandom ma dentro il Movimento. Per questo motivo, benché le tentazioni ci siano state, l’obiettivo non è stato creare un fandom di sinistra: “volevamo parlare di lotte, di bisogni materiali, di rivoluzione”. Sarebbe quindi fuorviante leggere la storia della rivista dimenticandosi di collocarla in quella del Movimento. Quella di Un’Ambigua Utopia è anzi riconosciuta come una delle più singolari esperienze culturali e politiche uscite dal cosiddetto “movimento del 77”.
È su questo materiale che German Duarte – ricercatore di cinema, nuove tecnologie, fantascienza e produzione di valore nell’era digitale – si è trovato a operare per la pubblicazione di “I reietti dell’altro pianeta”. Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, un’antologia della rivista edita da Derive e Approdi. Il volume propone un’ampia selezione dei contenuti dei nove numeri della “fanzine”, usciti fra il dicembre del 1977 e il maggio 1982. La scelta antologica del curatore permette al lettore di entrare in contatto con il lavoro e le riflessioni del collettivo senza sacrificare quasi mai i necessari elementi di contesto, rendendo i densi numeri della rivista più accessibili e facilmente consultabili. Non rientrano nella selezione diversi contenuti inerenti al cinema, gran parte delle recensioni, e la maggioranza dei racconti e della posta.
Il motivo di interesse per questa singolare esperienza politico-culturale, secondo quanto afferma Duarte nella stimolante introduzione, è dato dalla necessità, oggi, di identificare quelle nuove forme di produzione di valore tipiche del nostro contesto “tecnologico” che spesso passano inosservate. “Diversi indizi suggeriscono come si stiano generando forme di reificazione che vanno al di là di quel che possiamo immaginare, forme che non sono contemplate dal capitale nel suo stadio attuale ma che in un futuro prossimo potrebbero diventare fonti primarie di produzione di valore ma anche di sfruttamento e di alienazione”[3]. L’esperienza di Un’Ambigua Utopia (da qui in poi indicata anche come UAU) sarebbe quindi interessante nella misura in cui il collettivo si è proposto, anche attraverso lo strumento della fantascienza, di immaginare un “al di là dell’industriale”, e di territorializzare, in qualche modo, un futuro non tracciato.
Chiudono il volume tre postfazioni firmate rispettivamente da Giuliano Spagnul, Diego Gabutti e Carlo Pagetti. Se la postfazione di Pagetti presenta un ricordo del contributo di Caronia allo studio critico della fantascienza che oltrepassa l’esperienza di Un’Ambigua Utopia, Gabutti ripercorre alcune tappe della storia della cosiddetta narrativa di anticipazione. L’intervento di Spagnul, uno dei fondatori della rivista, offre invece delle importanti chiavi di lettura della storia di Un’Ambigua Utopia, focalizzandosi sul valore della fantascienza come dispositivo di soggettivazione e sull’immaginario.
Sorge qui spontanea la prima domanda: perché scegliere proprio la fantascienza per parlare di lotta politica e di bisogni? Che cosa videro – o intravidero – i giovani militanti di Un’Ambigua Utopia in quella piccola e “sporca”[4] letteratura di genere? Per il collettivo la FS è stata, soprattutto nella prima fase, uno strumento per interrogarsi sull’immaginario totalizzante della razionalità scientifico-borghese e sulle vie possibili per rompere quella gabbia che il sapere tecnico-scientifico asservito al capitale aveva creato. Si tratta di un aspetto se non centrale, certamente importante nella riflessione di UAU. Il genere fantascientifico, infatti, nato dal fuoco di una irriducibile quanto ingenua fiducia nel progresso e nella razionalità tecno-scientifica, aveva iniziato a svelare la natura spesso angusta e totalizzante di quel sapere (“è crollato il castello di carte, basato sulla fiducia assoluta nella scienza, che per molti anni era stato l’unico vessillo ufficiale della SF” si gioisce nel numero 4). Sembrava poi urgente per i membri del collettivo smascherare la valenza ideologicamente orientata dell’insidioso mito della neutralità della scienza: “nulla è neutrale di per sé nella scienza; (…) tutto ha un segno politico, per il semplicissimo motivo che la scienza è strumento di potere, e quindi ricade prima o poi entro l’ambito di una certa strumentalizzazione”[5].
Sorgeva anche da qui la necessità di identificare una “razionalità scientifica” diversa da quella che consegna la storia della scienza intrecciata con la storia del capitalismo. Più in generale si era intravisto nella FS uno strumento per leggere il conflitto sociale. A questa presa di consapevolezza avevano contribuito autori e autrici di FS che fra gli anni ’60 e ’70 avevano mostrato una permeabilità crescente alle influenze del sociale costruendo discorsi sempre più elaborati e avvertiti sulla natura del potere. Al centro i nomi di Philip K. Dick, James G. Ballard, Samuel R. Delany, e Ursula Le Guin – il nume tutelare che aveva acceso in diversi membri di UAU la scintilla dell’intuizione di un uso politico della fantascienza[6], e che aveva suggerito il nome del collettivo.
Come ricorda Caronia in Quando i marziani invadevano Milano la fantascienza era “la letteratura del possibile, l’erede – tanto nella letteratura “alta” come in quella popolare – dell’utopia, e consentiva dunque meglio di altre di trattare, di scandagliare i temi che interessavano [il collettivo]: le trasformazioni della società, i progetti di vita alternativi, gli scontri fra le classi, la distribuzione dei poteri, i sogni e i bisogni degli oppressi e il cinico realismo degli oppressori”. Ma soprattutto la fantascienza era “il tipo di letteratura che meglio esprimeva la mediazione fra natura e cultura messa in atto dalla società industriale, e proprio per questo era anche quella che meglio ne esprimeva la crisi”. Come aveva sostenuto anche Ballard[7] si trattava della forma narrativa più adatta ad esprimere la sensibilità di una società industriale matura. Un primo merito di UAU è stato quello di essere riuscita a servirsi con intelligenza della FS – quel genere, “vittorioso”, sempre secondo Ballard, che “era stato in grado di creare l’immaginario più potente del XX secolo” – intuendo e sapendo sfruttare il suo valore di dispositivo, “un dispositivo per il transito verso la fine di un’epoca”. Fu un successo se, come dice Giuliano Spagnul: “Volevamo servirci della FS e non servirla!”.
Ma se l’accelerazione del ritmo di trasformazione del capitale e i “nuovi modelli di costrizione” dell’epoca in arrivo furono, a quell’altezza storica, solo percepiti o intravisti all’orizzonte, la trasformazione radicale del contesto politico di lotta, si mostrò con violenza agli occhi di tutto il Movimento. Il ’79 vide infatti la gigantesca decapitazione di tutta I’Autonomia operaia a opera del teorema Calogero, “con le migliaia di perquisizioni e di fermi giudiziari disinvolti, con Toni Negri, Luciano Ferrari Bravo, Paolo Virno, e centinaia di altri militanti in galera, con la massiccia e invereconda campagna di stampa per associare l’Autonomia operaia alle Brigate Rosse”[8]. Secondo Franco “Bifo” Berardi il Movimento del ’77 “non era animato dalla volontà di dominare politicamente il corso degli eventi, ma piuttosto dal desiderio di mettersi in ascolto dell’epoca che sopravveniva”[9]. Mi sembra non si possa negare che UAU, seppe mettersi in ascolto, in quella difficile stagione, dell’epoca che stava arrivando. Lo dimostra in primo luogo la riflessione che condusse sull’immaginario, “quella grande forza che da sempre struttura l’inconscio di ciascuno dei suoi contemporanei e che costituisce non solo il principale ingrediente di coesione, ma anche la più potente leva di cambiamento sociale”[10]. Come suggerisce Giuliano Spagnul, per non confonderlo con l’idea semplificante della mentalità di un’epoca, l’immaginario è da vedere come un dispositivo che cattura soggettività per trasformarle ai fini di una nuova fase evolutiva dell’umanità, che non è né progressiva, né lineare. L’immaginario è sempre situato; per questo motivo quando se ne parla in termini generali occorrerebbe sempre specificare che si tratta di più immaginari sovrapposti tra loro: stratificazioni di immaginari che non si escludono a vicenda anche se contrapposti. Per fare un solo esempio: agli inizi del XX secolo negli Stati Uniti la potenza dell’industrializzazione in simbiosi con il consumismo ha avuto come dispositivo di soggettivazione (cioè di capacità di creare soggettività malleabili, predisposte a un certo tipo di sollecitazioni desideranti un particolare sistema di produzione di beni materiali e immateriali) un immaginario tecno-scientifico che parte dal basso, dai tecnici, dagli artigiani del fai da te; quelli che si costruivano da soli le proprie radio, televisioni ecc. Da qui la nascita sporca della fantascienza, nelle riviste pulp, che si propagherà nei vari media e che creerà nuove parole e nuove forme del pensare.
Se l’asse del discorso si era già spostato, con l’ingresso di Caronia nel collettivo, verso la definizione del campo dell’immaginario, tra le pagine dei numeri 5 e 6 inizia a prendere forma un’idea che rimescola le carte: i confini fra reale e immaginario stavano diventando sempre più sfumati. Parlare di confini sfumati è anzi riduttivo se come afferma Caronia nel numero 6 del marzo-aprile ’79, “l’immaginario, buon vecchio rassicurante duplicato – distorto o deformato- del reale, è cresciuto come quella carta geografica dell’impero di cui parla Borges, sempre più perfetta, tanto da coprire esattamente il territorio che pretendeva rappresentare”. Anche la dialettica immaginario-ideologia sembrava essere toccata da questa trasformazione. Lo dimostrano anche la repressione del Movimento e le campagne mediatiche di quegli anni: l’immaginario stava prendendo sempre di più il posto dell’ideologia.
È chiaro che il punto di vista privilegiato della FS, a quel punto, non servì più solo ad afferrare frammenti di immaginario, a “identificare e dare forma a un problema non ancora esistente ma che sarebbe esistito nel futuro”. Anche l’idea che la narrativa di anticipazione avesse l’ambizione di immaginare il futuro per prevenirlo e in qualche modo governarlo mostrava tutta la sua limitatezza. La FS cosiddetta matura contribuì invece ad anticipare quella presa di coscienza fondamentale: era lo stesso rapporto fra realtà e immaginario che stava mutando sempre più rapidamente. Anzi, senza che si fosse stati in grado di cogliere questo passaggio mentre stava avvenendo, quel rapporto si era già radicalmente trasformato. Ci si trovava allora di fronte, smarriti e in crisi, a una nuova fase che imponeva anche un profondo ripensamento delle forme dell’agire sull’immaginario e, quindi, dell’agire politico.
Nel cogliere e indagare questo mutato rapporto tra realtà e immaginario e, più in generale, per la seconda fase dell’esperienza di UAU, l’influenza del pensiero di Baudrillard (nella cui opera alcuni membri del collettivo avevano visto una traduzione dell’economia politica marxiana in termini semiotici) è stata fondamentale. Nel numero 7 è riportato l’intervento Simulacri e science fiction pronunciato dal filosofo al convegno di Palermo sulla Fantascienza tenutosi nell’ottobre del ‘78. Secondo Baudrillard nell’era implosiva dei modelli lo scarto tra reale e immaginario sarebbe totalmente riassorbito: i modelli non costituirebbero più una trascendenza o una proiezione, un immaginario in rapporto al reale ma sarebbero essi stessi anticipazione del reale; per questo motivo lo spazio per la trascendenza immaginaria si sarebbe ridotto. Di fronte a questi nuovi rapporti tra modelli, reale e immaginario, secondo il filosofo rimarrebbe aperto solo il campo della simulazione in senso cibernetico: è l’inizio dell’era dell’iperrealtà. Baudrillard identifica in Crash di Ballard “il modello attuale di questa science fiction che non è più tale (…) Crash è il nostro mondo, niente vi è “inventato”: lì tutto è iperfunzionale (…), come una grande macchina sincrona simulata, (…) in Crash non c’è più né finzione né realtà, l’iperrealtà le abolisce entrambe”[11].
Anche il clima culturale e filosofico era mutato, lo dimostra anche la grande influenza che le teorie di un filosofo come Baudrillard ebbero su UAU. Negli ultimi numeri iniziano a entrare in gioco e a essere sempre più centrali i concetti di modello, simulazione, cibernetica. Sono idee che guideranno il collettivo nella sua ultima fase di vita. Una fase in cui i protagonisti di quell’esperienza hanno mostrato di intuire quando non di cogliere le fratture epocali avvenute o in corso, e le questioni che il passaggio dal “moderno” al “postmoderno” stava aprendo. Una delle ragioni che rende questa esperienza così interessante è proprio il fatto che UAU che si trovò ad agire e a interrogarsi sull’immaginario in un momento che vide il sociale farsi sempre più complesso. Un orizzonte in cui, accanto agli “incipienti processi di smaterializzazione e di trasformazione del capitalismo in senso cognitivo”, iniziavano a germogliare i semi di alcune nuove “utopie”, come quella informatica. UAU seppe prendere coraggiosamente atto, quando fu il momento, che questo nuovo corso rendeva necessario abbandonare le strade già battute.
L’ultimo numero è proprio uno speciale sulla simulazione che colpisce anche per il mutato orizzonte del simbolico. L’editoriale è una riflessione di Caronia sulle forme possibili dell’agire politico nella mega struttura dell’immaginario postmoderno. Il discorso lascia aperta una domanda: la derealizzazione, il consumarsi del senso, la commistione tra reale e immaginario, l’informatizzazione della società, la spettacolarizzazione della cultura rappresentano nuovi strumenti di controllo sociale o recano in sé nuove possibilità di trasformazione? Il numero ospita, fra gli altri, due interessanti interventi rispettivamente di Paola Manacorda e Daniele Comboni sulla nascente società dell’informazione. Entrambi affrontano le origini dell’“utopia informatica” partendo dagli ideologemi che ne stanno alla base e si interrogano sui risvolti politico-sociali della nuova società plasmata da uno scambio sempre più rapido e massiccio di informazione in cui emerge un nuovo soggetto: l’individuo-utente. Secondo Comboni si tratterebbe di un’utopia sempre più integrativa, ben diversa dalla denotazione classica delle utopie tecnocratiche degli anni ‘60, perché concepita come un progetto di integrazione sociale che fuoriesce dal tempo del lavoro. Il carattere tangibile e pervasivo del nuovo sviluppo tecnologico non permetterebbe inoltre di criticare tale progetto “utopico” secondo un procedimento utilizzato per demolire le vecchie utopie tecnocratiche. Sono tramontati definitivamente quelli che Lyotard chiama “i grandi racconti di legittimazione” e l’informatica non rivendicherebbe la stessa dimensione come “grande racconto postmoderno” ma si infiltrerebbe oggettivamente come rete connettiva di individui-utente.
Al numero 9 non seguì un nuovo numero ma un convegno, Il gatto del Cheshire. Rassegna di teorie e pratiche della simulazione, promosso da Antonio Caronia e Patrizia Brambilla. Fra l’ottobre 1982 e il febbraio 1983, su iniziativa della provincia di Milano, furono poi organizzate alcune mostre sul mercato del libro di fantascienza e rassegne cinematografiche nelle biblioteche della provincia. La libreria aperta dal collettivo – nel frattempo divenuto cooperativa – nell’autunno dell’’80 chiuse all’inizio dell’’83. “La Milano da bere si era già saldamente installata, nelle strade e nelle coscienze”[12].
UAU, storia interna al Movimento, non sopravvisse alla fine del Movimento. Cogliere la vita che è stata in quell’esperienza significa forse riconoscere il laboratorio di idee e pratiche che quella esperienza è stata, il suo valore di “strumento di indagine militante per pensare il pensiero dell’immaginario”. E prendere atto del suo “generoso quanto fallimentare tentativo” di tenere aperto quel immaginario sempre più schiacciato sul reale tenendo a mente “che l’immaginario stesso muove verso destini che non sono mai prefissati anche quando narrazioni potenti ce li fanno apparire come tali”[13]. Nonostante Il collettivo vi dedicò un intero numero, l’utopia è stata il grande convitato di pietra anche per UAU in quella stagione di “fine delle utopie”. Tutta la storia del collettivo potrebbe essere letta come un lungo corpo a corpo con l’utopia. Un concetto da cui diffidare o addirittura da respingere per il suo carattere totalizzante e le tentazioni reazionarie, per la dipendenza da un “nucleo morale forte” e per il segreto desiderio di pietrificare il cambiamento, una volta raggiunto. Ma soprattutto per la sua natura trascendente, perché rimandante a un altrove irrealizzabile o, nella migliore delle ipotesi, a qualcosa da ritrovare dopo la Rivoluzione o chissà quando. Quanto alle accuse di insuccesso rivolte agli esperimenti utopici, Henri Desroche ammonisce: “Se si registra l’insuccesso dovuto a schizofrenia delle pratiche utopiche si deve forse dimenticare l’insuccesso dovuto questa volta a sclerosi di altre pratiche sociali che passano a torto per essere completamente riuscite solo perché sono diventate pratiche dominanti, idee stabilite, fatti assodati?”[14] Il discorso di UAU fu un continuo ripensamento dell’utopia, una sua messa in discussione attraverso il tentativo di portarla al concreto della vita vissuta. Forse vale ancora quanto diceva Philip Dick: “La verità che ciò che il senso comune ritiene impossibile e ciò che invece ritiene possibile, date particolari condizioni, sono entrambe affermazioni arbitrarie, dato che il possibile e l’impossibile non possono essere conosciuti oggettivamente e sono, piuttosto, nostre credenze”.[15]
- Giuliano Spagnul, Immaginare con Antonio Caronia: la fantascienza dopo la morte della fantascienza, in German Duarte (a cura di), I reietti dell’altro pianeta. Un’ambigua utopia e le società del futuro, DeriveApprodi, Bologna, 2024, p. 460. ↑
- https://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2014/12/antonio-caronia-quando-i-marziani.html ↑
- German Duarte, Un’Ambigua Utopia. Mappatura di un al di là della prassi, in I reietti dell’altro pianeta. Un’ambigua utopia e le società del futuro, p. 8. ↑
- Ursula K. Le Guin: «il 95% della fantascienza è porcheria, bene liberiamoci di quella roba! Apriamo la finestra e liberiamoci di questa immondizia!» ↑
- I reietti dell’altro pianeta. Un’ambigua utopia e le società del futuro, p. 60. ↑
- https://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2014/12/antonio-caronia-quando-i-marziani.html ↑
- Io pensavo allora, e lo penso ancora adesso, che da un certo punto di vista la fantascienza sia stata la vera letteratura del XX secolo, e che abbia avuto una grande influenza sul cinema, la televisione, la pubblicità e il design dei prodotti di largo consumo. Oggi la fantascienza è il solo luogo dove sopravvive il futuro, come la fiction televisiva in costume è il solo luogo in cui sopravvive il passato (I miracoli della vita, Feltrinelli, Milano 2009, p. 162). ↑
- https://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2014/12/antonio-caronia-quando-i-marziani.html ↑
- Franco Berardi (Bifo), Dell’innocenza. Interpretazione del settantasette, Agalev edizioni, Bologna, 1989, p. 8. ↑
- Jean-Marc Royer, Il mondo come progetto Manhattan, Mimesis, Milano, 2023, p. 199. ↑
- I reietti dell’altro pianeta. Un’ambigua utopia e le società del futuro, p. 332. ↑
- https://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2014/12/antonio-caronia-quando-i-marziani.html ↑
- Giuliano Spagnul, Immaginare con Antonio Caronia: la fantascienza dopo la morte della fantascienza, p. 465. ↑
- Henri Desroche, La cavalcata delle utopie, in I reietti dell’altro pianeta. Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, p. 262. ↑
- P. K. Dick, La mia definizione di fantascienza, in Mutazioni, a cura di L. Sutin, Feltrinelli, Milano, 1977. ↑