“In Occidente nessuno sarà più felice, pensava ancora,
mai più, oggi dobbiamo considerare la felicità
come un’antica chimera,
non se ne sono più presentate le condizioni storiche”
Michel Houellebecq, Serotonina
Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq è il flusso di coscienza di Florent-Claude Labrouste, agronomo francese, figlio di un tempo nel quale qualunque grande racconto di emancipazione e trasformazione progressiva appare ormai impossibile. Si tratta di un viaggio a ritroso dentro le dolorose e fallimentari relazioni con donne tanto amate; relazioni usurate dalla banalità di esistenze emotivamente ridotte all’insignificanza.
Serotonina è un movimento vertiginoso attraverso un’Europa spettrale abitata da automi, figure descritte in atteggiamenti meccanici. Sono uomini e donne in tutto simili a quelle che incontriamo quotidianamente per la strada, nelle nostre città, nelle campagne spagnole, nelle province belghe, francesi o tedesche. Nel corso del testo viene nominata gran parte dell’Europa occidentale: l’Europa post-Crisi – ma non si può essere affatto certi che si tratti di un ‘post’, leggendo questo romanzo –, di una terra desolata popolata di uomini e donne azzerate, le cui ambizioni non portano a nessuna gioia e nemmeno a forme di tregua da routine costellate da insoddisfazioni. È un’Europa rappresentata come un circo del turismo enogastronomico – la Normandia del camembert – o di quello sessuale e balneare – la Spagna delle coste o delle suggestive, aride zone interne. Attraversiamo, ondeggiando nel classico incedere basculante e inesorabile della prosa di Houellebecq, vite sterilizzate dove le emozioni abitano esclusivamente il ricordo che, solo, dà valore ad un presente anaffettivo, di cui il magico e terribile Captorix a base di serotonina, farmaco ingerito dal protagonista, ne è la metafora biochimica. Vite che oscillano insensatamente tra la zoofilia e l’impotenza: la sessualità, infatti, in maniera particolarmente accentuata in questo romanzo dell’autore francese, è il luogo di performance esagerate, oppure mestamente obbligate, abitudinarie.
Ritorna così la cifra unica e riconoscibile di questo scrittore: la capacità di raffigurare con un registro poetico il declino apocalittico di una civiltà. Ci troviamo davanti alla malinconia di una fine terminale e inevitabile, di qualcosa di irrimediabilmente perduto che è l’umanità stessa; una cifra che brillava già così luminosamente in Le particelle elementari (Les Particules élémentaires, 1998): allora in una versione da fantascienza distopica vergata da forme di neopositivismo, oggi in versione di inquietante realismo. Tuttavia, si tratta di una lettura dalla quale si esce rinfrancati, ri-umanizzati. Il degrado davanti al quale la voce narrante pone il lettore, produce un effetto di allontanamento, di spinta alla ricerca del bene e del conforto, di compassione ed empatia. Perché, come sempre nella scrittura di Houellebecq, è proprio attraversando l’abiezione che riappare quanto di più umano ci sia nella deumanizzazione che ci circonda e della quale, in fondo, anche noi, lettori e lettrici, siamo protagonisti.
Serotonina ci consegna anche un’altra cifra delle scrittura di Houellebecq, che si manifesta in un crescendo con lo scorrere delle pagine: è lo sguardo retrospettivo verso la storia dell’umanità, uno sguardo dal futuro ben piantato nel presente. Una forma di straniante spaesamento che ci restituisce frammenti della nostra stessa civiltà in forme di distorti rispecchiamenti. Siamo vivi ma è come se stessimo vivendo la nostra estinzione:
“È strana questa volontà di fare un bilancio, di convincersi, nel momento estremo, di aver vissuto; o forse no, forse è il contrario a essere terribile e strano, è terribile e strano pensare a tutti quegli uomini, quelle donne che non hanno niente da dire, che non vedono altro destino futuro se non quello di dissolversi in un vago continuum biologico e tecnico (poiché le ceneri sono tecnica, anche quando sono destinate a servire solo da concime, vanno calcolati i tassi di potassio e azoto), insomma a tutte quelle persone la cui vita è svolta senza incidenti esterni.”
Se in Le particelle elementari o in La possibilità di un’isola (La Possibilité d’une île, 2005) questo sguardo retrospettivo era costruito attraverso il gioco letterario della fantascienza post-apocalittica o distopica, qui come in Sottomissione (Soumission, 2015) o in Piattaforma (Plateforme, 2001), domina un severo e brutale realismo. È impossibile scrollarsi di dosso la sensazione di essere totalmente immersi, parte attiva, di questa estinzione.
Il contraltare di un modo di infelicità, fallimenti e disperazioni individuali è singolarmente rappresentato, in questo romanzo, dalla comparsa del mondo degli allevatori della Francia profonda, stritolata dagli incomprensibili quanto impietosi processi di produzione del mercato capitalistico nella sua fase neoliberista. Se il mondo delle relazioni sociali ed affettive appare condannato all’aridità, quello delle relazioni economiche globali è un mondo di altrettanta e generalizzata desertificazione. La sussistenza stessa degli aspetti materiali della vita appare compromessa.
Ma le “atmosfere di catastrofe generale alleviano sempre un po’ le catastrofi individuali”, prorompe ad un certo punto nel suo racconto Labrouste. Così, nonostante gli abissi di paralizzante disperazione, il viaggio del protagonista – iniziato nei meandri solitari di una mente depressa – sembra sbocciare in scenari pubblici. La tragedia del singolo assume connotati più ampi, condivisi: il fallimento individuale è squarciato dall’irrompere di un esercito di falliti – gli agricoltori della Normandia che, stanchi di subire passivamente i tremendi effetti del mercato globale, decidono di protestare, occupando le strade della provincia Francese.
“Io ero entrato in una notte senza fine”, racconta ad un certo punto Labrouste, eppure “nella parte più profonda di me persisteva qualcosa, molto meno di una speranza, diciamo un’incertezza”. “Incertezza” è certamente una parola chiave di questo nuovo romanzo di Michel Houellebecq: incertezza tra rassegnazione e azione, tra rilancio e abbandono. Labrouste rientra perfettamente nella galleria di personaggi houellebecqiani rivoltanti e struggenti, tanto odiosi e deprecabili – sessisti, razzisti e cinici – quanto commoventi. L’elemento profondamente umano, il tratto di una debolezza radicata ed estrema ne fa l’oggetto di compassione e, a tratti, immedesimazione, l'(anti)eroe di una vicenda che è anche la nostra, del nostro Tempo.