Certe volte la ricerca dell’opera prima di uno scrittore riserva sorprese. Talvolta l’esordio di personaggi poi diventati celebri è avvolto nelle tenebre dell’oblio, e solo gli specialisti ne hanno notizia; e può trattarsi di scritti piuttosto diversi da quelli che poi hanno assicurato la fama del loro autore. Questo mi sembra il caso di Ernest Hemingway, che ovviamente associamo a Fiesta, a Per chi suona la campana, ad Addio alle armi e soprattutto ai suoi magistrali Quarantanove racconti, modello di tutta la narrativa breve americana del XX secolo e pure del XXI. Hemingway narratore, sia nelle forme lunghe (considerevolmente tali in un’opera postuma come Isole nella corrente) che in quelle brevi e brevissime (come quel capolavoro in miniatura che è “Vecchio al ponte”, un’autentica tragedia di sole tre pagine).
Hemingway maestro della prosa modernista, che cesellava con ossessiva meticolosità (e vittima di un clamoroso fraintendimento da parte della critica italiana, Vittorini in testa, che lo prese per una sorta di buon selvaggio); Hemingway che dà al testo una torsione cubista, come nello spettacolare primo capitolo di Addio alle armi, o nel canonico racconto “Un posto pulito, illuminato bene”. Hemingway teorico dell’iceberg, di una narrazione che deve dire il minimo indispensabile e lasciare il resto alla ricostruzione del lettore; Hemingway scrittore per sottrazione, che taglia e cancella finché non resta l’essenziale (come attesta il confronto anche sommario tra le sue opere postume e quelle pubblicate in vita).
Ma Hemingway poeta?
Ebbene, la primissima pubblicazione del nostro, un volumetto di una sessantina di pagine stampato in sole 300 copie a Parigi nel 1923, in pratica autopubblicato, si intitolava perentoriamente Three Stories and Ten Poems, e il titolo non mente. Nella raccoltina, dopo tre racconti che riapparvero successivamente in altre raccolte (ne riparleremo), si trovano effettivamente dieci poesie che non sono più ricomparse nelle successive pubblicazioni di Papa (come Hemingway amava farsi chiamare); segno certo che quel tentativo iniziale non aveva convinto l’autore per primo.
Eppure in alcune delle dieci poesie – non memorabili, ma interessanti sì – troviamo qualcosa che invece manca del tutto nei tre racconti che completano la raccolta. Basta prendere “Riparto d’assalto” (Papa conosceva l’italiano ma ogni tanto l’ortografia lo tradiva…): nel breve componimento appare una squadra di Arditi a bordo di un camion (si tratta della fanteria d’assalto della Grande guerra, non delle camicie nere), che sale “fin su ai pini squarciati sul versante del Grappa /ad Asalone, dove il carico del camion è morto”. Altro errore d’ortografia, Asalone è in realtà il monte Asolone sul massiccio del Grappa, dove effettivamente italiani e austriaci si massacrarono con grande impegno.
Non dimentichiamo che il giovanissimo Hemingway attraversò per la prima volta l’Atlantico proprio a causa della guerra, per andare sul fronte italiano ad assistere i feriti del Regio Esercito; fu in guerra che lo scrittore venne accidentalmente ferito; e fu a Milano che venne operato e trascorse la sua convalescenza, e lì sbocciò la storia d’amore con la crocerossina Agnes von Kurowsky – tutte vicende poi trasfigurate, come ben si sa, in Addio alle armi (dove l’avatar di Agnes, Catherine Barkley, non pianta in asso il protagonista ma ha un figlio con lui per poi morire di parto – un po’ una sorta di vendetta finzionale di Papa). Si potrebbe affermare che fu la guerra ad accendere la sua vena narrativa; e la guerra la ritroviamo anche in altre poesie della sua opera prima, in “Champs d’honneur”, che evoca la macelleria industriale sul fronte occidentale, con tanto di gas asfissianti; in “Roosevelt”, ironicamente dedicata al presidente americano (non Franklin Delano, ovviamente, ma Theodore, il politico macho e cowboy), del quale si dice «Cosa non avrebbe fatto in Francia!», cioè nelle trincee; “Prigionieri” offre un’altra istantanea del conflitto, evocando gli sconfitti per i quali “Pensare e odiare erano finiti/ pensare e combattere erano finiti/ ritirarsi e sperare erano finiti”.
La guerra diverrà un filo rosso sangue che percorrerà tutta l’opera dello scrittore americano; è la premessa ineludibile di Fiesta, causa della ferita che ha reso impotente il protagonista; è l’ambientazione di Addio alle armi e di Per chi suona la campana, è l’antefatto di Di là dal fiume e tra gli alberi, ed è la chiusa feroce di Isole nella corrente. E non dimentichiamo che Hemingway alternava alla narrativa il giornalismo, e proprio una guerra, quella tra greci e turchi del 1919-1922, fu argomento dei suoi primi reportage, cui avrebbero fatto seguito quella civile spagnola e il secondo conflitto mondiale.
Ma per quanto giri per il mondo Hem non dimentica mai del tutto la madrepatria, per quanto preferisse risiedere a Cuba. Anche in questa manciata di poesie gli Stati Uniti non mancano: uno dei componimenti s’intitola non a caso “Oklahoma”, e dichiara con amaro sarcasmo: “Tutti gli indiani sono morti /(un buon indiano è un indiano morto)”, dando voce tra parentesi al razzismo imperante negli Stati Uniti del 1923, ma come prendendone le distanze; per poi ribaltare il luogo comune, nei versi successivi: “O viaggiano in automobile – (le terre petrolifere, sai, sono tutte ricche)”. Ma anche questo è uno stereotipo, sul quale si ironizza; e si insegna come curarsi se si viene colpiti da una freccia, ma forse il dolore che “Pulsa martellante nella notte […] è la gonorrea”. Ancora una volta Hem nomina qualcosa che il puritanesimo a stelle e strisce vietava, cioè le malattie veneree – seguendo in questo ancora una volta l’esempio di Joyce, che ambienta un intero capitolo dell’Ulisse in un bordello di Dublino, dove la tenutaria altri non è che la maga Circe.
Le dieci poesie ci offrono insomma barlumi dell’Hemingway che sarà, ma ci dicono qualcosa di importante: che il nostro aveva cognizione del lavoro di lima faticoso e incessante che è proprio dei poeti, della costruzione dove ogni parola conta, dove ogni virgola ha un senso. Aveva idea del ritmo e delle risonanze. E questo ci fa capire che la sua prosa è qualcosa di meditato, rifinito, curato; una prosa che di tanto in tanto diviene poetica. Questo già avviene nei tre racconti presenti nella raccolta del 1923, che ebbero una sorte ben diversa dalle dieci poesie.
I versi di Hemingway rimasero un episodio senza sbocchi, noto solo agli specialisti (che ultimamente, va detto, stanno rivolgendo maggiore attenzione alle primissime fasi della carriera di Papa). Invece i tre racconti, “Su nel Michigan”, “Fuori stagione” e “Il mio vecchio”, riapparvero in altre pubblicazioni. Il secondo e il terzo vengono inclusi, appena due anni dopo, nella prima raccolta di racconti che Hemingway pubblica per i tipi di un editore di una certa importanza, In Our Time; evidentemente li considerava validi al punto di riproporli in un libro ambizioso, nel quale tra un racconto e l’altro ci sono brevi testi in prosa, frammenti di narrazione, a costruire nell’insieme un’opera decisamente d’avanguardia per i tempi, di stampo modernista (e quei frammenti sono a tutti gli effetti poesie in prosa, eredi delle dieci poesie dell’opera d’esordio). “Su nel Michigan”, invece, resta nel cassetto fino al 1938, quando Hemingway la fa entrare in The Tenth Column and the First Forty-Nine Stories, che noi conosciamo in Italia col titolo I quarantanove racconti. Il diverso titolo non è una svista del traduttore (che fortunatamente non fu Fernanda Pivano bensì Giuseppe Trevisani): semplicemente sia Einaudi che Mondadori tennero i racconti separati dal dramma La quinta colonna, il tentativo di Papa di scrivere per il teatro.
Ma perché aspettare quindici anni prima di ripubblicare un racconto tutt’altro che disprezzabile? Molto semplicemente, la storia è quella di un rapporto sessuale occasionale tra un fabbro e una cameriera, un’istantanea di vita quotidiana che anticipa Carver (scrittore di racconti oggi molto più celebrato di Hemingway, ma molto meno dotato); un rapporto che a leggerlo oggi sembra proprio uno stupro, raccontato senza compiacimento ma senza nascondere niente. Quando Hemingway lo fece leggere a Gertrude Stein, la sua allenatrice letteraria, lei ammise che era buono, ma lo qualificò con un curioso, e quasi intraducibile, aggettivo inglese: inaccrochable. Poi spiegò: “Vuol dire che è come un quadro che un pittore dipinge e poi non lo può esporre se allestisce una mostra e non lo compreranno perché non lo potranno esporre neanche loro”. Il problema è che un racconto che parlava di sesso, per di più non consensuale, in modo così brutalmente diretto, senza eufemismi, senza zucchero, non avrebbe trovato un editore disposto a rischiare. Ricordiamo che quelli erano gli anni in cui l’Ulisse di Joyce, oggi un classico incluso nei manuali scolastici, era considerato un romanzo pornografico che non poteva essere venduto nelle librerie inglesi e americane, pena sequestro.
Comunque, nel 1938 le cose erano cambiate abbastanza da consentire a Scribner di ripubblicare “Su nel Michigan”, fors’anche perché ormai Hemingway non era più l’esordiente di belle speranze dei primi anni Venti, ma uno scrittore di bestseller planetari al di là del bene e del male. Nella raccolta trovò spazio anche “Il mio vecchio”, nel quale si annunciavano diverse caratteristiche dello scrittore maturo: l’ambientazione cosmopolita (la storia inizia a Milano e si conclude a Parigi e dintorni), l’interesse per gli sport più virili (il protagonista è Butler, un fantino americano che vive in Europa), l’ambiguità morale (forse Butler lascia Milano perché ha truccato delle gare di equitazione, forse perché ha rifiutato di farlo), il rapporto tra padre e figlio visto da quest’ultimo (rapporto che tornerà, invertito, in Isole nella corrente, uno dei romanzi postumi). E già c’è la prosa di Hemingway, col suo ritmo caratteristico, con la sua ripetitiva ma efficacissima paratassi, cioè la successione di frasi coordinate dalla congiunzione and. Mi sembra il caso di citarne una in originale per rendere l’idea, mettendo le congiunzioni in corsivo per evidenziarle:
Once there was an American woman sitting with her kid daughter at the next table to us and they were both eating ices and I kept looking at the girl and she was awfully good looking and I smiled at her and she smiled at me but that was all that ever came of it because I looked for her mother and her every day and I made up ways that I was going to speak to her and I wondered if I got to know her if her mother would let me take her out to Auteuil or Tremblay but I never saw either of them again.
[Una volta c’era un’americana seduta con la figlia adolescente al tavolo accanto al nostro e stavano mangiando gelati tutte e due e continuavo a guardare la ragazza e lei era tremendamente bella e gli ho sorriso e lei mi ha sorriso ma finì tutto lì perché cercai sua madre e lei tutti i giorni e m’inventai qualche maniera per parlare con lei e mi chiesi se avessi fatto la sua conoscenza se sua madre me l’avrebbe lasciata portare ad Auteuil o a Tremblay ma non ho visto mai più nessuna delle due.]
Sì, certo, c’è qualche but e if, ma poca roba. And è il connettivo che tiene su la prosa di Hemingway, creando questi periodi torrenziali al limite dello stream of consciousness (Papa aveva letto Joyce con attenzione, e mi fanno ridere certi letterati italiani che mettono i due in opposizione), in un inglese parlato che sembra facile a metterlo sulla carta ma non lo è, è il prodotto di un’attenta e meticolosa asciugatura del linguaggio, di tagli su tagli su tagli, fino a lasciare l’essenziale. Un lavoro da poeti, anche se mancati.
Lo dimostra l’altro racconto della raccolta, “Fuori stagione”: siamo ancora una volta fuori dagli Stati Uniti, per la precisione a Cortina d’Ampezzo, dove una coppia sposata di turisti americani prende come guida il giardiniere dell’albergo, Peduzzi, un vecchio sbevazzone, che dovrebbe portarli in un buon posto per la pesca, senza farsi pizzicare dai guardiapesca, perché per l’appunto siamo fuori stagione. L’atmosfera è desolata, l’escursione è un fallimento perché il marito non ha portato i piombini per le esche, e tra i due coniugi c’è un certo malumore, forse strascico di una lite (come al solito Hemingway lascia che siano i lettori a farsi un’idea); la donna torna in albergo, i due uomini si consolano con una bottiglia di marsala. Sulla via del ritorno Peduzzi si convince che il giorno dopo l’americano lo farà lavorare di nuovo e magari gli offrirà ancora del marsala, ma l’americano non sembra avere intenzione di ripetere l’esperienza. Pare che il racconto avesse un finale tragico che però Hemingway tagliò, convinto che tutto quel che succedeva fino al ritorno al paese fosse sufficiente per suggerire il fallimento di Peduzzi.
Il racconto, a leggerlo attentamente, sembra ispirato da “Una partita a scacchi”, la seconda parte della Terra desolata di T.S. Eliot, manifesto della poesia modernista che Hemingway aveva studiato bene: la coppia senza figli rimanda alle coppie sterili ritratte da Eliot, il paesaggio alpino è cupo e demoralizzante, una sorta di terra desolata, il fiume fangoso; la pesca rimanda inevitabilmente (come sarà poi in modo ancor più plateale in Fiesta) alla figura mitica del Re Pescatore. Questa presenza del mito, del rituale, di archetipi culturali, si ritroverà anche in Fiesta e poi in Addio alle armi, ben nascosta, come lo era l’Odissea nell’Ulisse.
Concludendo, in questa raccolta di prose brevi e brevissime poesie c’è già tanto dello scrittore che si farà conoscere in tutto il mondo e che indicherà alla scuola americana del racconto su quale via incamminarsi; che sarà da guida ai vari Carver, Cheever, O’Connor e compagnia cantante; che verrà imitato in gioventù persino, insospettabilmente, da James G. Ballard. Ancora una volta il buongiorno si vede dal mattino, ragione sufficiente per continuare ad andare a caccia delle dimenticate opere prime di scrittori indimenticabili.
Ernest Hemingway, Tre storie e dieci poesie, tr. Alessandro Pugliese, Ferrara, Argentodorato, 2021, pp. 95, euro 8,00