Cristò / Sperimentare l’inquietudine

Cristò, Restiamo così quando ve ne andate, TerraRossa Edizioni, pp. 234, euro 15,00 stampa

Sperimentare non è più da questo mondo. Oggi è necessario semplificare il linguaggio, appiattire i contenuti. Se perfino i registi cinematografici prestano la dovuta attenzione nel comporre inquadrature che andranno guardate su telefonini e tablet, perché tanto nelle sale non ci va più nessuno, figuriamoci quanto si tenda ad amalgamare la narrativa quando da anni il mondo editoriale lamenta una sentita crisi di lettori. Il pubblico superstite si accontenta dunque di quel che racimola, o ripara nei grandi classici, mentre quello ipoteticamente nuovo viene nutrito con della roba che sembra tagliata e incollata da Whatsapp. O poco ci manca.

Be’, non temete: di sperimentatori ce ne sono ancora in circolazione, bisogna solo sforzarsi di setacciare le offerte appena oltre la linea di fuoco delle major editoriali per trovarne alcuni. Uno di loro si chiama Cristò. E meriterebbe una frase epica per venire consegnato a un grande pubblico che ha bisogno di conoscerne e apprezzarne le pagine, o almeno una parafrasi, che so, qualcosa tipo: «Ho visto il futuro della narrativa italiana. Quel futuro si chiama Cristò».

Dopo La Carne (Intermezzi Ed.), romanzo dall’intelaiatura e dallo stile letterario difficilmente superabili, e dopo aver in fin dei conti scritto sempre romanzi brevi, con Restiamo così quando ve ne andate l’autore si cimenta finalmente sulla misura lunga, sebbene crei a bella posta un microcosmo e chiuda lì la narrazione, come potesse controllarne meglio lo scorrere degli eventi. Che a loro volta si dipanano grazie a un ingranaggio ulteriore, e questo lo rivela molto chiaramente la struttura del romanzo, divisa in tre sezioni da dieci giorni, dieci ore e dieci mesi.

Francesco, il protagonista, ha quarant’anni e lavora in un supermercato da cui presto si licenzierà, oppresso dalla prematura morte dell’amico (nonché collega) Donatello, che sognava di fare lo scrittore. Anche Francesco coltiva l’ambizione di diventare musicista per professione, la realtà lavorativa lo soffoca e gli sottrae tempo da dedicare alla musica, alla composizione di un’opera sua.

La musica è pure il collante fra lui e Monica, musicista a sua volta, con cui Francesco ha intrapreso una relazione piena di strappi, che non si decide a consolidare. Ed è forse in mezzo a uno di questi strappi che Francesco intravede la figura della giovane ragazza indiana Fatima, che insieme alla famiglia abita dirimpetto. Il muro della sua cameretta confina con la camera-studio di Francesco e quando lui e Monica suonano, o discutono, o fanno l’amore, Fatima batte qualche colpetto contro la parete, che di volta in volta assume sensi e pesi diversi.

Tutto questo viene osservato (e mosso) da qualcosa o qualcuno che si trova al contempo dentro e fuori dalla linea narrativa. Intanto che la narrazione procede attraverso la voce di Francesco, un’altra voce, più corale, s’insinua fra le righe, commenta, cogita, dialoga con sé stessa, e poi scompare. Per noi possono essere fantasmi, emanazioni energetiche rimaste in circolo. O l’amico Donatello, perché no?

Perché no, ecco perché. Perché questo romanzo l’ha scritto Cristò e sarebbe stato troppo banale per lui riempire un appartamento di spettri e scadere nell’ovvio. Ma credeteci: dopo essere arrivati alla fine di questo viaggio struggente, a tratti lisergico, e a suo modo dolcissimo, non riuscirete mai più a guardare le stanze di casa vostra con gli stessi occhi. Né a considerare casa vostra stessa come, appunto, vostra.

E la sottile ma persistente inquietudine che ne deriverà, la riterrete il miglior ricordo che la lettura di questo romanzo poteva lasciarvi addosso. Anzi: attorno.

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