Di Fabrizio Coscia recensii, ai tempi della prima vita di PULP Libri, Notte abissina, e parliamo di dodici anni fa; lo ritrovo ora saggista e non più romanziere, e provo un po’ di rammarico, perché quello era uno dei libri veramente rilevanti degli anni Zero (cercatelo, leggetelo, ne vale assolutamente la pena). Comunque, la scelta dello scrittore, il passaggio dal romanzo a una serie di brevi saggi sulle tele del grande pittore irlandese, ha una motivazione profonda; nasce da un vero e proprio scacco della narrazione che lo stesso Coscia descrive in questi termini:
Penso alla noia che inevitabilmente mi prende, da un po’ di tempo a questa parte, quando apro un libro e leggo l’inizio di una «storia», soprattutto se al passato remoto, e in terza persona. Non riesco a proseguire.
Lo stesso Coscia s’interroga su questo tedio che lo assale, si chiede da dove origini, e si dà una risposta dubitativa:
Forse dal fatto che siamo letteralmente assediati dalle storie? La tv non fa che raccontarci delle storie «in serie», la politica racconta storie, la pubblicità, il cinema, i social network. Tutto è narrazione, tutto è storytelling.
E allora la reazione dello scrittore a tutte queste storie (cioè balle, perché la parola anche quello significa, non ce lo dimentichiamo) è giocoforza iconoclasta:
La letteratura dovrebbe, al contrario, avere il compito di smontarle, di deformarle, assemblarle, aprirle, scorticarle [le storie], per mostrare ciò che vi si nasconde dietro, per rendere visibile l’invisibile, proprio come Bacon faceva con l’illustrativo quando ritraeva la natura umana.
In questa operazione iconoclasta lo scritore – lo dice lo stesso Coscia con gran sincerità – ha trovato un poderoso alleato, e cioè Francis Bacon. I brevi saggi contenuti nel volumetto (corredato da una piccola selezione dell’opera del pittore, ben riprodotta) si inscrivono nelle tele dove lo sguardo allucinatorio e implacabile dell’artista deforma, assembla, apre, scortica, ma diciamo pure squarta corpi e volti per restituirci la vita nuda e indifesa. Così facendo l’autore di Dipingere l’invisibile prende due piccioni con una fava, o meglio due risultati con un pittore.
Primo: la scrittura di Coscia, sia chiaro, non è quella di un critico d’arte. Nonostante dimostri un’approfondita conoscenza delle tele di Bacon e corredi il volumetto con una bibliografia non priva di saggi critici, quel che interessa allo scrittore è rendere conto – o meglio, e diciamocelo, narrare l’impatto che Bacon ha avuto su di lui. E Coscia ci tiene a ricordarci che quando venne esposta l’opera che rivelò al mondo la devastante grandezza dell’artista, Tre studi di figure alla base di una crocefissione (1945), la reazioni degli spettatori furono piuttosto forti: «alcuni di essi se ne uscirono quasi subito, scioccati; gli altri rimasero costernati». Perché quando nasce una nuova bellezza, parafrasando Yeats, essa appare terribile: è qualcosa che sconvolge, disorienta, infine respinge. Così è ogni volta che incontriamo qualcosa che non abbiamo mai visto (o sentito, o letto) prima: siamo più costernati che ammirati, e magari neanche ci piace. Magari ci ripugna, ci spaventa, ci angoscia. L’arte veramente innovativa non è cosa cui si reagisce con un wow! o un emoticon col pollice all’insù. Coscia questa lotta con il bello che ti aggredisce la racconta benissimo, e già solo per questo vale la pena di leggerlo.
Secondo: Coscia comunque racconta. Come lui stesso ha detto così bene, lo fa smontando, deformando, aprendo, assemblando, scorticando le sue storie. Attraverso gli squartamenti pittorici di Bacon lo scrittore napoletano ci racconta la sua storia, o meglio una sua storia, che emerge (e comunque non completamente, ma in speculum, per aenigmata) solo nell’Epilogo di Dipingere l’invisibile. Una storia intimamente personale, famigliare, alla quale approda grazie a quelle tele brutalmente belle, angosciosamente affascinanti, immondamente ipnotiche, ferocemente fascinose. In realtà Coscia racconta e come in questa serie di saggi; racconta Bacon e la sua vita eccessiva, ma entra anche narrativamente nelle tele, e racconta se stesso attraverso quelle immagini, quei corpi lacerati, quei cremisi e quegli arancioni e quelle tenebre ricorrenti e incombenti. Ma non è lo storytelling RAI/Mediaset, che dio ce ne liberi e scampi.
Si tratta, va detto, una narrazione sicuramente esigente, che al lettore non regala niente – ma neanche lo mitraglia con una cervellotica esibizione di pseudoavanguardismi stantii. Coscia ha respinto il racconto ruffiano di fenomeni da baraccone ed esperienze estreme preconfezionate, ma quel che mette sulla pagina è comunque, per quanto complessa, solida esperienza vissuta – solo, e qui lo scrittore sceglie coraggiosamente di essere inattuale, è un’esperienza dell’arte tutt’altro che edonistica e modaiola, e senza urli tra Sgarbi e Vanna Marchi, senza apericena nel museo. E proprio per questo, dati i tempi, di tutto rispetto.
(Non so se si è capito, a me Francis Bacon piace immensamente – o meglio, anche a me piace essere violentato visivamente dalle sue macellerie pittoriche, e meglio loro di quelle messicane di genovese memoria. Per cui, in guardia, o lettore! La mia è una recensione vergognosamente partigiana e connivente, nonché prevenuta. Però io, se non altro, lo ammetto.)