L’enorme tragedia del sogno, di Domenico Gallo

Mancava poi, a Rosenberg, ogni comprensione per la dimensione della sacralità e della trascendenza

Julius Evola, Il cammino del cinabro

Samb Modou, Diop Mor, Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike: sono i nomi delle persone colpite da Gianluca Casseri il 13 dicembre 2011. Pochi giorni intensi sui media alla ricerca delle ragioni di una strage di cui nessuno vuole neppure lontanamente assumersi le responsabilità morali, politiche e culturali, e la carneficina compiuta dal neofascista scompare abbandonando dietro di sé alcune tesi e l’incertezza sulla sorte dei feriti. Se all’interno di una rivista di letteratura ci occupiamo di un fatto di cronaca, ancora incerto tra follia e azione politica, è perché l’omicida viene segnalato come scrittore, seppur dilettante, di un romanzo e di pamphlet antisemiti, ed editore in proprio di una fanzine dedicata alla letteratura fantastica. Uno degli elementi determinanti del clamore succeduto all’omicidio è stata la scoperta di un sottobosco sterminato di narrativa, introduzioni e saggi che presentano un legame profondo tra il genere letterario del fantastico e la cultura fascista e post-fascista. Una realtà che da decenni viene studiata, contestata e politicamente denunciata, ma che giunge alla conoscenza dei media solo dopo un plurimo omicidio.

L’esistenza di una cultura di destra è un fatto risaputo, ma, fino a oggi, se si escludono i periodi delle letterature di regime, tipici delle società totalitarie, dove si intrecciano opportunismi e omologazioni che costituiscono un fenomeno molto complesso di rapporto tra cultura e potere, l’attenzione è stata rivolta ai singoli autori. Louis-Ferdinand Céline, Ezra Pound, Knut Hamsun, Pierre Drieu La Rochelle e Robert Brasillach, per ricordare i letterati più famosi, erano fascisti. Le loro biografie manifestano un’adesione volontaria ai movimenti fascisti delle loro nazioni, un collaborazione aperta e pubblica con i governi d’occupazione e una sterminata documentazione sulle idee politiche e la visione sociale in cui credevano. L’approccio della critica letteraria a questi autori è tradizionalmente coinciso con una divisione tra le responsabilità politiche degli autori e la qualità letteraria delle loro opere. L’elemento critico che conduce a una così radicale autonomia dell’opera andrebbe approfondito, ma, come sottolinea Francesco Germinario nel suo saggio Céline, letteratura politica e antisemitismo, sono frequenti e autorevoli le letture nelle quali ciò che sorprende è il rifiuto generalizzato a cercare un collegamento «tra il Céline romanziere, che nelle pagine dei suoi romanzi in più occasioni affida alle osservazione dei suoi personaggi il compito di dichiarare la sfiducia nella politica e nella capacità di quest’ultima di risolvere i problemi drammatici della condizione umana, e il pamphletaire politico apertamente fascista dal 1937 e collaborazionista negli anni successivi, quasi che l’autore del Viaggio al termine della notte sia una persona del tutto diversa da quello della Scuola dei cadaveri» (Germinario, pag. X).

Il caso specifico di Céline, che fu rigorosamente fascista e antisemita ma forse pigro, in quanto fu scarsa la sua partecipazione attiva alla politica francese durante l’occupazione tedesca, è certamente il più interessante, perché l’antisemitismo, la denuncia della decadenza francese sia in campo politico sia in campo razziale, la spinta antidemocratica e l’anticomunismo furono temi talmente sentiti da essere fonte d’ispirazione primaria per tutta la sua narrativa. Non dimentichiamo che la letteratura di Céline fu il luogo in cui viene elaborata una teoria esistenziale, di cui, romanzo per romanzo, cogliamo lo sforzo di innovarsi e di connettersi al mostruoso piano politico che si organizzava attorno a lui. Il pensiero radicale di Céline raggiunge il suo livello più estremo nella critica al collaborazionismo francese quando ne denuncia i troppi compromessi e gli aspetti moderati. Ne La scuola dei cadaveri assistiamo alla radicalizzazione dell’antisemitismo con la teorizzazione dell’ebreo sintetico, colui che pur essendo ariano aderisce volontariamente a ideali e comportamenti ebraici. La rilettura dei testi di Céline, in particolare quelli che vanno dal 1937 al 1944, come Bagatelle per un massacro, evidenziano sia l’adesione alla destra più estrema e al razzismo scientifico dell’autore, ma si tratta di opere che fanno evidentemente parte della letteratura, e non è un caso che nel numero di febbraio 2012 di Le Magazine Littéraire, dedicato a «Les écrivains et l’occupation», sia descritto il conflitto letterario e politico che oppone, su fronti opposti, Brasillach, Drieu la Rochelle, Céline, Cocteau, Sartre, Aragon, Malraux e Colette, e cerca di sondare le reazioni di letteratura e letterati di fronte a condizioni estreme.

La polemica seguita alla strage di Gianluca Casseri, coautore con Enrico Rulli di un romanzo fantasy esoterico intitolato La chiave del caos, con una prefazione di Gianfranco De Turris, ha tuttavia aperto un’interessante prospettiva di rilettura di un fenomeno tutto italiano che tende ad ascrivere alla cultura di destra interi generi letterari. Soprattutto lo studio delle culture di massa all’interno dei regimi del fascismo europeo aveva affrontato l’utilizzo del mito quale elemento fondamentale della costruzione delle ideologie reazionarie e razziste. George Mosse affronta il problema nel suo saggio Le origini culturali del Terzo Reich (Saggiatore), dove dipana una serie di aggrovigliate radici che risalgono al romanticismo tedesco, al razzismo, all’antisemitismo, alle costruzioni utopiche e, non ultimo, alla reinvenzione in chiave politica della riscoperta degli antichi germani. Una reinvenzione ideologica del passato che, come spiega Léon Poliakov ne Il mito ariano (Editori Riuniti), avviene platealmente anche in Italia, con la creazione del mito dell’antica Roma. Si tratta, evidentemente, di manipolazioni storiche destinate al rapido consumo delle masse e ad essere bruciate all’interno di una spregiudicata e contraddittoria propaganda.

Tuttavia, questa costruzione patetica di falsi miti non sarebbe stata possibile senza che vi fosse stata una produzione culturale di raffinata qualità da poter essere degradata in discorso politico, operativo e violento. Sicuramente Mircea Eliade ed Emil Cioran, due intellettuali nati in Romania e comodamente riparati in Occidente, sono forse i maggiori interpreti di un processo di traduzione delle culture originali del fascismo europeo all’interno del panorama post-bellico. Si tratta, in realtà, di un camuffamento solo superficiale, ma che consentirà ai due autori di proteggere l’interno contenuto conservatore e antisemita del pensiero fascista europeo e di salvaguardarlo per le future generazioni. Non è interessante sapere quanto e come Eliade e Cioran parteciparono direttamente al movimento fascista, e di quali gravi responsabilità si macchiarono pur restando impuniti. Sul loro contributo al fascismo si rimanda al saggio di Alexandra Laignel-Lavastine intitolato Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo (UTET), un libro che merita un’attenta lettura e di cui, in Italia, non si è parlato a sufficienza. A questo sistema collaudato, che vede la costruzione di un modello del mito diretto esplicitamente a sostenere un progetto politico razzista ed elitario, capace di degradarsi rapidamente per diventare elemento fondamentale della lotta politica e di strada, ed essere consumato dagli elementi più instabili e violenti della società, la prima reazione intellettuale è da attribuirsi a Károly Kerényi.

Lo studioso ungherese, nato a Timisoara quando la città faceva parte dell’impero Austro-Ungarico, introduce il concetto di «mito tecnicizzato» per definire quegli aspetti del mito che sono intenzionalmente introdotti nella sfera politica, contrapponendo un «mito genuino». Per lo studioso un mito tecnicizzato viene costruito per conseguire un determinato scopo, connotandone una finalità meramente pratica, strumentale, mentre il vero mito, essendo considerato il manifestarsi del vero, non ha uno scopo che possa essere declinato nel mondo umano («Dal mito genuino al mito tecnicizzato», in Scritti Italiani 1955-1972, Guida). In questo senso è evidente una critica esplicita di contraffazione del mito rivolta ai fascismi europei che hanno volontariamente introdotto falsi miti allo scopo di combattere una battaglia politica contro le democrazie, e una contrapposizione culturale a studiosi come Eliade e l’italiano Julis Evola che, invece, hanno cercato di elaborare una teoria del mito che implicasse un uso politico o, addirittura, che ne fosse subordinata.

In Italia solo Furio Jesi sembra avere recepito con chiarezza la lezione dell’illustre maestro ungherese (dal quale si allontanerà proprio per motivi politici). Agli interventi sul mito tecnicizzato e sul rapporto tra mito e politica, Jesi dedicherà molteplici contributi come Germania segreta (Silva, 1967), Mito (Isedi, 1967) e Letteratura e mito (Einaudi, 1968), mentre, nel 1979 viene pubblicato da Garzanti un contributo di estremo interesse e destinato a segnare tutti i futuri studi sul neofascismo italiano, Cultura di destra. Mentre Jesi inizia una pressoché solitaria analisi dell’utilizzo spregiudicato che la destra ha fatto del mito, nell’Italia indifferente la scuola di Julius Evola, sostanzialmente costituita da Gianfranco De Turris, inizia, a partire dagli anni Sessanta, una minuziosa colonizzazione della letteratura fantastica.

Progressivamente, sostanzialmente attraverso una serie di introduzioni, prende forma l’idea che la letteratura fantastica rappresenti l’espressione di una serie di miti mai tramontati ma che trovino oggi posto nelle opere di scrittori come Tolkien, Lovecraft, Howard, fino a Borges, secondo l’idea di Eliade che un mito non scompaia ma si ripresenti in forma degradata nei racconti e nelle leggende. Senza mai citare espressamente le trascorse esperienze culturali del fascismo e del nazismo, molte opere fantastiche tradotte in italiano trovano una sorprendente collocazione all’interno di un universo mitico contemporaneo che è l’espressione di una cultura antimoderna, elitaria, strettamente connessa agli intellettuali maledetti (Céline, Pound, Spengler e altri) e, in generale, a quella cultura del mito e di scuola antisemita di Eliade, Guenon, Evola.

È interessante notare che, dal punto di vista politico, nello stesso periodo storico, le medesime tesi culturali che costituiscono il corpo di molte introduzioni a opere fantastiche sono le stesse che si trovano negli scritti del Gruppo di Ar e del Movimento Politico Ordine Nuovo. Si tratta forse di una polemica sterile quella che risale al marzo del 1977 quando, sulla rivista di fantascienza Robot diretta da Vittorio Curtoni, Remo Guerrini constata che le scelte dei due curatori della casa editrice Fanucci, ritenuti di “una destra definita”, sono la conseguenza di posizioni ideologiche che portano a prediligere opere di horror e di fantasy alle opere di fantascienza. Si tratta di Sebastiano Fusco e Gianfranco De Turris. Le osservazioni di Guerrini, invero scontate, furono oggetto di molte critiche, soprattutto tra coloro che, ingenuamente, negavano l’esistenza di un qualsiasi rapporto tra la letteratura e la politica, predicando la neutralità della letteratura. La realtà dei fatti, letterari e politici, è che in Italia la destra evoliana è molto attiva nel settore della letteratura, e da quarant’anni ha costruito una struttura di testi e pubblicazioni molto estesa, e si basa su una rete di sostenitori particolarmente agguerrita. L’idea originale della destra evoliana è di avere concepito un modello decisamente più radicale del fascismo di Mussolini, troppo incline a compromessi politici, religiosi, economici e razziali. Sono state letti con grande ambiguità i comportamenti di Evola durante il fascismo, citandone il suo scarso coinvolgimento con le strutture del partito come se si trattasse di un qualche dissidente. Evola riteneva il fascista italiano scarsamente orientato da quei principi di sacralità che andava delineando. Al fascismo preferiva il nazismo, con la sua maggiore capacità di utilizzo del mito nordico, anche se Hitler aveva derivato il suo potere dal popolo e non godeva quindi di una completa sacralità.

Kerényi scriveva a Jesi il 25 maggio 1965:

per il nazismo (…) non dispongo di spiegazione mitologica, bensì una spiegazione rigorosamente scientifica, sociologica. (…) Il nazismo è stata una forma di conquista del potere da parte del quarto stato (…) i delinquenti e gli psicopatici, il tipo “gangster”, che la vita delle città ha prodotto in pericolosa folla. Hitler fu un delinquente e uno psicopatico e lo furono anche i suoi complici (…). Per costoro anche il mito falso era buono per ingannare consapevolmente il mondo – una chiacchiera, una scempiaggine forgiata da intellettuali sciocchi, che per vanità starebbero agli ordini di qualsiasi movimento criminale

(Demone e Mito. Carteggio 1964 – 1968, Quodlibet)

Attorno all’idea che proprio attraverso la letteratura fantastica le creature e le situazioni immaginarie di molti autori potessero consentire la creazione (tecnicizzata) di nuovi e artificiali miti da utilizzare per creare un nuovo ordine sociale, si sono raccolti gruppi e intellettuali impegnati a costruire un nuovo immaginario. Un volume interessante di documentazione di parte è certamente Fascisti immaginari di Luciano Lanna e Filippo Rossi (Vallecchi). Secondo questo progetto di mitopoiesi politica esiste una letteratura di destra che attraverso la creazione di nuovi miti, di passati alternativi in cui i fascismi europei non sono stati sconfitti, il dilagare di creature ataviche in grado di distruggere la società moderna, il riproporre una società antidemocratica e organizzata in caste e in grado di scardinare e sostituire l’attuale civiltà. I suoi autori più importanti sono proprio Tolkien e Lovecraft.

H.P. Lovecraft

Non è importante dimostrare che Tolkien e Lovecraft, personalmente, non ritenevano di essere fascisti, e che le loro opere si prestano anche ad altre interpretazioni, invece è interessante notare che la destra sia convinta di possedere una propria letteratura, che questa sia composta da determinati autori e che la letteratura, proprio perché intesa come spazio di elaborazione dei nuovi miti, sia uno strumento immediatamente politico. Nell’introduzione all’epistolario di H. P. Lovecraft intitolato L’orrore della realtà (Edizioni Mediterranee), Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco attaccano frontalmente l’ipotesi che l’autore statunitense possa avere, nell’ultimo periodo della sua vita, attenuato le sue posizioni fasciste a favore di un’adesione al comunismo. La querelle è irrilevante sotto ogni punto di vista, ma è invece interessante la disciplina critica attuata nel saggio, ovvero l’espressione di una priorità a eliminare ogni ambiguità politica dell’autore e a mantenerlo all’interno del disegno della rivoluzione conservatrice o del socialismo fascista.

Julius Evola

Questa egemonia che la cultura fascista ha esteso, o ha tentato di estendere, sulla letteratura fantastica si presenta oggi su molteplici livelli. Il primo, il più banale, è l’atteggiamento agiografico verso gli autori di destra, sia appartenenti al fantastico sia ascrivibili alla legione maledetta della letteratura ufficiale. Il secondo stabilisce i riferimenti intellettuali che questi autori hanno inconsapevolmente evocato, rilevandone il ripresentarsi dei miti all’interno del paradigma evoliano di nostalgia/necessità del ritorno a uno stato prestorico dell’esistenza. Il terzo livello, che ci riporta alla tragedia dell’inizio di questo scritto, è la costruzione di un tessuto politico e sociale che parta da questi miti e che ricavi dagli scritti dei maestri e dei nuovi maestri (le introduzioni alle opere del fantastico e i saggi della scuola evoliana) le indicazioni a un’azione politica e culturale. A partire dagli anni Ottanta, le tesi di Gianfranco De Turris hanno acquisito sempre maggiore diffusione, anche grazie a un’accurata eliminazione di pochi ma significativi termini che potevano banalmente riportare alle esperienze del fascismo europeo.

È così accaduto che, sullo sfondo dei grandi autori del passato, una numero sempre maggiore di autori e aspiranti autori italiani, grazie anche a una serie di piccoli editori di destra, hanno pubblicato decine e decine di volumi che si accordavano alle linee teoriche di questo fantastico nero. Forse si tratta di quegli intellettuali sciocchi additati da Kerényi, o più semplicemente coloro per i quali una garanzia di pubblicazione era il prezzo per una abborracciata romanzata neofascista, ma è certo che la qualità letteraria di questo fantastico nero, con i suoi miti copiati e ricopiati, per la maggior parte dei casi neppure conosciuti nelle forme originali, è davvero scadente. Scadente come La chiave del Caos, il romanzo di Gianluca Casseri ed Enrico Rulli.

Furio Jesi all’interno di Cultura di destra tratta ampiamente il concetto di apolitìa basandosi sulle pagine di Evola tratte da Il cammino del cinabro e da Cavalcare la tigre. Secondo la lettura di Jesi, Evola concepisce all’interno della capacità di operare il distacco dalla società e dai suoi valori due possibili ruoli per gli iniziati. Solo pochi raggiungono il grado più alto di iniziazione, mentre altri, incapaci di staccarsi dal mondo, restano al grado più basso. «Il comportamento di costoro non può essere forte e puro e privo di illusioni», e allora gli iniziati di grado superiore devono orientare gli iniziati di grado inferiore verso il raggiungimento di obiettivi mondani che «di per sé sono vani, privi di qualsiasi utilità, ma che hanno una preziosa funzione didattica». Quando Furio Jesi analizza la «didattica del compito inutile» forse pensa ai molti folli che, in varie occasioni della storia, probabilmente spinti da qualcuno, destinati da un complotto o esaltati dai loro stessi miti di violenza e di sacrificio, hanno compiuto gesti mondani come bruciare il Reichstag, gettare una bomba a mano alla questura di Milano, collocare una bomba in una banca o in una piazza. Le parole di Evola sono oscure ed è futile stabilire un principio di causa effetto tra i suoi scritti e la violenza della destra durante gli anni della strategia della tensione.

Gianfranco De Turris, negli anni dell’amnesia collettiva berlusconiana, ha dedicato alla figura del suo maestro un saggio intitolato Elogio e difesa di Julius Evola – Il barone e i terroristi, specificatamente dedicato ai rapporti con le organizzazioni terroriste di destra e teso a dimostrarne la più assoluta estraneità. L’analisi effimera e scandalistica dei media che hanno dedicato alcune delle loro preziose ore al problema della cultura di destra non ha reso la complessità e la diffusione del fenomeno, la «macchina mitologica», ovvero il congegno che genera l’illusione di contenere il mito, quel linguaggio che simula una vita in ciò che è assolutamente morto, sta lavorando da anni ad affiancare le conseguenze della crisi economica per rilanciare il suo progetto antimoderno di ritorno alla tradizionale differenziazione e rideterminazione in campo razziale, aggiungendo, come sosteneva Evola, un ancora più forte razzismo dello spirito. Il metodo, come si legge nelle pagine di Céline, è di colpire l’ebreizzazione della società occidentale, non solo gli ebrei.

(Articolo in origine pubblicato su PULP Libri n. 96, marzo-aprile 2012, pp. 10-19)

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