L’anno scorso è stato Nazzareno Mataldi, traduttore e agricoltore, a relazionarci sui fatti di Mantova; quest’anno abbiamo mandato in missione uno dei nostri Giovani turchi, che ci ha consegnato questo rapporto fededegno sull’edizione 2018 di Festivaletteratura. Riguardo al quale possiamo dire solo che ipogeo è indubbiamente una parola da difendere con le unghie e con i denti. La lettura del seguente reportage vi farà capire perché.
Arrivo a Mantova nelle prime ore di un appiccicoso pomeriggio di settembre, dopo varie ore di treni regionali. L’ingresso ferroviario alla città, al contrario del più evocativo Ponte San Giorgio, impedisce di godersi lo spettacolo sempre notevole dei palazzi che sembrano sorgere dalle acque come un miraggio, ed è un peccato. Mantova è un luogo sognante, e questa caratteristica viene ulteriormente intensificata nei giorni del festival in cui, difesa dai suoi tre laghi, la città diventa un utopico bastione della letteratura a fronte degli attacchi scarsamente alfabetizzati dell’Italia contemporanea. Magari sto esagerando, ma trovarsi in questa sorta di isola fatta di acciottolati, vicoli e cortili signorili che si aprono ovunque si posi lo sguardo è sempre una sensazione onirica — aiutano in questo senso le frequenti e spesse nebbie generosamente offerte dal Mincio.
Ma la giornata è limpida, la città luminosa, e io ho un accredito stampa da ritirare; per cui, abbandonati gli scarsi bagagli e in preda a un inedito fervore giornalistico, mi lancio immediatamente nell’abbraccio sudaticcio dei lettori che iniziano a sciamare per le vie del centro.
La sala stampa si affaccia direttamente su Piazza Leon Battista Alberti, giusto dietro la magnifica Basilica di Sant’Andrea, per i cui splendidi affreschi i Gonzaga, dicono le voci, non pagarono mai il povero Mantegna. Qui vengo introdotto alle gioie del giornalista accreditato: un bel badge giallo, shopper del festival, programma, taccuino, e, sopra ogni cosa: accesso illimitato alla macchinetta del caffè, privilegio del quale approfitto e abuso durante i giorni seguenti. Guardo per un po’ gli altri giornalisti affaccendarsi ai loro portatili, seduto su una delle (comodissime) poltrone (rosse) a disposizione, poi decido di buttarmi nella mischia.
Il primo evento a cui partecipo, “Mare e scrittura o scrittura di mare”, è un confronto tra alcune firme di Sirene, lo scrittore britannico Simon Winchester, e il nostrano Matteo Trevisani, autore del Libro dei fulmini. Quest’ultimo racconta la storia di una maledizione che avrebbe perseguitato i pescatori del suo albero genealogico (il mare, si sa, è un dio affamato), mentre il primo, con tutto l’aplomb che il personaggio richiede, spiega come i sogni adolescenziali di diventare capitano di Sua Maestà siano svaniti per colpa del daltonismo, come ogni oceano abbia una vera e propria personalità, e i l fatto che l’Oceano Pacifico è il posto dove si formano tutti i fenomeni meteorologici del pianeta. I suoi libri dedicati al mare, Atlantico e Pacifico, mi sembrano una lettura interessante. Mi ripropongo di acquistarli, poi me ne dimentico. Lo farò, prometto.
Dopo, durante un drink al quale vengo mezzo invitato e mezzo imbucato, Winchester prende bonariamente in giro un giornalista italiano per l’inglese delle sue mail sorseggiando un calice di rosso, mentre qualcun altro, venuto a sapere che scrivo per PULP Libri, mi consiglia di cambiare mestiere. Ci penserò su. Scambio anche qualche parola con Christopher Bollen (Orient), improvvisandomi interprete in mancanza di veri professionisti, e me la cavo discretamente, anche se il lessico marinaresco non è esattamente la mia specialità.
Il giorno successivo passo un bel po’ di tempo nel cortile di Palazzo Castiglioni (proprio lui, quello del Cortegiano), uno dei luoghi più belli del festival tutto. Qui ogni giorno c’è un appuntamento fisso: Il libro più divertente che ho letto. Con il piacere che si riserva solo alla sacrosanta rivalutazione di grandi scrittori ingiustamente caduti nell’oblio, ben due degli autori intervistati, il suddetto Bollen e Tullio Avoledo, scelgono Kurt Vonnegut, rispettivamente: La colazione dei campioni e Un pezzo da galera. Io avrei detto Galapagos, ma è bello vedere come l’ironia zannuta di Vonnegut sopravviva egregiamente ai tempi, e anzi, come la sua sardonica ferocia sia forse ancora più attuale di questi tempi in cui ridere vuol dire sempre più spesso abbandonarsi a un ghigno. L’autore sentitamente ringrazia; e io anche.
Nel pomeriggio è tempo per la prima superstar del festival: l’ex Ministro delle finanze greco e attuale leader di Diem25 Yanis Varoufakis, che presenta il suo ultimo, ponderoso volume: Adulti nella stanza. La mia battaglia contro l’establishment dell’Europa. L’economista, si sa, è uomo carismatico, e dopo aver salutato la platea col pugno chiuso si lancia nell’esposizione elegante e un po’ smargiassa della rozzezza delle attuali politiche nazionalistiche e della cecità incurabile dei burocrati neoliberali d’Europa. Definisce «idiota» la gestione della crisi, racconta di un senzatetto greco che gli chiese di prendersi cura degli altri perché per lui era ormai troppo tardi, e ribadisce continuamente la necessità di democratizzare l’Europa piuttosto che distruggerla. C’è anche una storiella divertente su un vecchio amico italiano, passato come tanti dal PCI a uno qualunque dei successivi partiti socialdemocratici. «Eri un comunista di ferro, non lo sei più?» chiede Varoufakis. «No», risponde l’altro, «perché l’ha detto il partito». Non mancano ovviamente diverse frecciate ai nostri attuali governanti, tanto che al momento delle domande una fervente pentastellata prende il microfono per ribadire le proprie posizioni e rigettare le manco troppo velate accuse di razzismo pronunciate dall’ex ministro. La sventurata viene sommersa da una valanga di fischi («questa è la sinistra», sibila inviperita) a riprova che, di solito, chi ama la letteratura non apprezza le sciocchezze. Grazie al cielo.
Verso le cinque mi muovo con un pugno di giornalisti in una delle sale della splendida Loggia del grano, quartier generale del festival, dov’è prevista una collettiva con David Sedaris, uno degli uomini più divertenti del pianeta. Che infatti non si smentisce: entra sorridendo e azzarda qualche parola in italiano—un po’ ingrigito rispetto a come me lo ricordavo, ma sempre brillante. Le domande si susseguono, Sedaris dichiara il suo amore per le scenette slapstick della vita di tutti i giorni, e afferma che la gente sarà sempre in grado di trovare qualcosa che li faccia ridere. «La cosa importante è riuscire a essere in uno stato di perenne stupore», dice. Volevo chiedergli cosa trova divertente in Donald Trump, ma una giovane giornalista mi precede: «Un ego di quelle dimensioni è divertente di per sé», risponde, «Non puoi fare a meno di ridere quando qualcuno è così innamorato di se stesso». Sedaris ha appena pubblicato una selezione dei diari che tiene con ossessiva regolarità sin dagli anni Settanta (Ragazzi, che giornata! Diari 1977-2002). Il resto è stato consegnato all’università di Yale con la clausola che potranno essere resi pubblici solo dopo la sua morte. «Se qualcuno leggesse tutto quel che scrivo nei miei diari», dichiara, «per la vergogna mi infilerei una matita in un orecchio fino a spappolarmi il cervello».
Chiudo la giornata in bellezza con una robusta pinta di doppio malto mentre Trevisani mi fa i tarocchi e mi spiega Gurdjieff (i libri mi sono arrivati; grazie, Matte’).
Il giorno successivo, dopo l’inevitabile dose di caffeina accumulata in sala stampa, mi muovo verso il conservatorio Lucio Campiani per una vera e propria lecture accademica. Robert Darnton, decano degli storici statunitensi, tiene un’interessantissima lezione su letteratura e censura tratta dal suo I censori all’opera, nella quale mette a confronto le pratiche censorie della Francia borbonica, dell’India britannica e della DDR. L’autorità di Darnton traspira da ogni suo gesto e dall’ironia con la quale illustra l’argomento. Ascoltarlo è un piacere. In chiusura, lo storico lancia un condivisibile appello contro gli eccessi smaterializzanti e omnitestuali di un certo tipo di teoria poststrutturalista. «Il concetto postmoderno di censura volgarizza le conseguenze che questo atto ha e ha avuto sulle persone, sui corpi che l’hanno subito», dichiara, «Anche la semplice autocensura può diventare un veleno mortale, alla lunga». Applausi in sala.
Arriva finalmente uno dei momenti che aspettavo di più. Ai margini del centro storico, vicino ai freschi e sonnolenti giardini di Palazzo Te, Tom Drury presenta il suo ultimo libro, Pacifico, insieme a Luca Briasco. L’incontro non delude le aspettative. Drury afferma di ispirarsi all’epica celtica per il suo stile asciutto e assertivo, pur ammettendo una certa evoluzione formale dai tempi de La fine dei vandalismi. E l’autore stesso sembra il personaggio della mitologia cui dice di ispirarsi: serio, lascia raramente trapelare l’ironia che invece riversa nelle sue storie. Un Cúchulainn che ha deposto le armi per impugnare la penna. Parla dell’importanza dell’ambientazione nella sua opera, affermando come la lontananza dai luoghi dove è cresciuto gli permetta di ricreare un luogo reale e immaginario e utilizzarlo come palinsesto per studiare le reazioni dei personaggi ai cambiamenti che, romanzo dopo romanzo, investono la contea rurale del Midwest che lo scrittore ricrea in ogni suo piccolo, fondamentale dettaglio. «La geografia è parte dei miei ricordi più profondi. Quel che ho cercato di fare è stato presentare il paesaggio ai personaggi per vedere come questi cambiavano in relazione all’ambiente», afferma. E anche: «Lo scontro con l’autorità è sempre una buona cosa per un personaggio… ogni buon romanzo ha bisogno di un piantagrane». Buoni consigli di scrittura da parte di un bravo scrittore, che alla fine dell’incontro si premura anche di suggerire alcuni dei suoi autori preferiti, tra i quali figurano Cechov, Sherwood Anderson, Daniel Woodrell e l’amico Chris Offutt (tra i preferiti anche di chi scrive).
Mentre ozio in Piazza Leon Battista Alberti rimettendo a posto gli appunti della giornata mi imbatto di nuovo in Sedaris, intervistato dagli speaker di Fahrenheit, che dichiara di aver imparato ben due nuove parole in italiano: «stracotto d’asino» e «sifilide». Entrambe utilissime nella bassa mantovana.
L’ultimo giorno di festival si apre in bellezza con quella vecchia lenza di Chris Offutt; tra tutti, l’incontro che aspettavo di più, essendomi di recente perdutamente innamorato della sua scrittura cruda ed elegiaca. L’intervistatore prescelto è Giancarlo De Cataldo, che a tratti sembra faticare a imbrigliare Offutt con le sue domande. Ma l’autore si scioglie in fretta, e racconta con ironia, nella parlata lenta e morbida del Sud, della sua adolescenza negli Appalachi del Kentucky, e di come non avesse mai pensato di diventare uno scrittore. «Volevo essere un attore, o un pilota di macchine da corsa, oppure una spia. Qualcosa di entusiasmante, insomma. Scrivo da che ho memoria, ma da ragazzo l’idea di diventare uno scrittore non mi ha nemmeno sfiorato». Parte dell’intervista è dedicata anche al padre, Andrew J. Offutt, una figura quantomeno singolare. «Mio padre e mia madre hanno vissuto nelle colline del Kentucky per una cinquantina d’anni, e non buttavano mai via niente. Così, dopo la morte di mio padre, ho scoperto che aveva scritto, sotto vari pseudonimi, qualcosa come quattrocento romanzi pornografici. Era capace di scrivere un libro in tre giorni, lo faceva per soldi, un po’ come ho fatto io quando lavoravo per Hollywood. Scriveva tutto a mano, e mia madre poi lo batteva a macchina», ride. Ma i momenti più interessanti dell’incontro sono quelli in cui Offutt parla del Kentucky, delle montagne e della gente che vive lì, spesso in condizioni assolutamente precarie. «Sono gli ultimi dimenticati della società americana. Le persone del Kentucky sono considerate il peggio del peggio, vengono continuamente sfottute per questo. Non c’è niente tra le colline: nessun ristorante o negozio; l’unico luogo deputato alla socialità è la chiesa, che infatti è molto presente nel mio lavoro perché è un elemento fondamentale della vita tra le colline. Possono essere una comunità molto unita, volenterosa di aiutare il prossimo, ma c’è un rigidissimo codice da rispettare. Un codice di comportamento e un codice d’onore. La lealtà è fondamentale: devi essere leale con la tua famiglia, i tuoi fratelli e sorelle, e devi essere leale con la terra. Per quel che mi riguarda, la mia lealtà è prima di tutto con la letteratura. Quello che vorrei fare on la mia opera è abbracciare queste persone, perché gli voglio bene». Il malinconico abbandono pastorale che spesso caratterizza la scrittura di Offutt è anche una cosciente operazione antropologica, il tentativo di mantenere viva la memoria di una cultura che è lentamente ma inesorabilmente inghiottita dalla storia: «La mappa che trovate in Nelle terre di nessuno l’ho disegnata io. È l’unica mappa del luogo in cui sono cresciuto. C’erano persone, c’erano paesi; adesso non c’è più nulla. È tutto scomparso».
Faccio la fila per fargli firmare la mia copia di Kentucky Straight (ho provato a fingermi disinteressato, ma non ho resistito). Gli dico che ho recensito Country Dark per Pulp, e che mi è piaciuto molto. Dice di ricordarsi di me per via di un paio di parole che ha dovuto cercare sul dizionario («ipogeo» e «silvano», nello specifico), mi ringrazia scherzosamente per avergliele insegnate [N.d.A. questa cosa dell’ipogeo deve avermi reso lo zimbello di mezza editoria italiana, perché appena Offutt mi chiede di pronunciarlo Luca Briasco e Roberto Serrai si girano verso di me. «Ah, sei tu Marco! Appena ho sentito “ipogeo” mi sono detto “è lui”». Prometto solennemente che in futuro la smetterò di fare il ricercato. Sono un accademico, cercate di capirmi e compatirmi]. Lo ringrazio di tutto, perché se lo merita. Infilo il libro firmato di fresco nell’apposita borsa di tela fornita dall’organizzazione e mi allontano con un sorrisetto divertito.
Grazie, Mantova, è stato proprio bello. Ci vediamo l’anno prossimo. O meglio: fa’ bel, Mantova, as vedema prest’!