Georges Simenon, Le persiane verdi, tr. Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio, Adelphi, pp. 208, euro 19,00, stampa euro 9,99 ebook
Georges Simenon (Liegi, 1903 – Losanna, 1989) è senza dubbio uno degli scrittori più prolifici del secolo scorso. Ha scritto circa duecentoventi romanzi, più altri testi sotto pseudonimo, con una qualità che si è mantenuta sempre a livelli altissimi. Quando si legge l’ultimo Simenon, si ha spesso l’impressione di aver letto il suo miglior romanzo, almeno così sembra a molti suoi lettori. Il suo nome è legato a quello di Maigret, personaggio che sarà portato sul piccolo e grande schermo da molti registi, ma a mio parere non è con i romanzi ispirati al Commissario che lo scrittore belga ha dato il meglio di sé.
Ancora giovanissimo si trasferisce a Parigi, dove riesce a vivere con le entrate che gli procurano i suoi scritti. La struttura delle trame, la capacità di rendere reali le ambientazioni, la credibilità dei personaggi, la profondità dello scavo psicologico e la spietata analisi della società rendono difficile pensare che Simenon riuscisse a scrivere un romanzo in meno di tre settimane; eppure è così.
Scritto nel 1950 tra il 16 e il 27 gennaio, durante il suo soggiorno in California, Le persiane verdi fu definito dal suo autore con queste parole: «Forse questo è il libro che i critici mi chiedono da tanto tempo e che ho sempre sperato di scrivere». Tocchiamo infatti l’apice del suo talento narrativo con un testo che più degli altri indaga nella psicologia dei personaggi, che ci offre un incipit di rara potenza evocativa ambientato in uno studio medico, e narra una storia che a distanza di quasi settanta anni mantiene intatta la sua freschezza e la sua attualità; un romanzo scritto con uno stile essenziale che non deborda mai nell’autocompiacimento. I personaggi sono vividi, e non faticano a entrare nell’immaginario del lettore.
Maugin, il protagonista del romanzo, è un famoso attore al culmine del successo. Decide di farsi visitare da un luminare della medicina, il dottor Biguet, che ha in cura persone celebri e importanti di Parigi, per far valutare il proprio stato di salute. Ed è così che alla viglia del suo sessantesimo compleanno viene a sapere che ha un cuore di un settantacinquenne. Il medico cerca di rassicurarlo, ricordandogli che alcuni uomini di quell’età hanno ancora un discreto numero di anni da vivere, ma la notizia getta una nuova luce sulla sua esistenza. A Maugin piace bere, avere qualche avventura sessuale, fare una vita senza tanti limiti. La sua terza moglie, Alice, è una ragazza giovane che ha sposato nonostante fosse incinta di un altro uomo. Lei lo ricambia con gratitudine, con un amore incondizionato che passa sopra alle sue scappatelle.
L’attore ha un figlio di cui ha saputo di recente, frutto di una passata relazione con Juliette: Maugin era sparito all’improvviso e lei si era sposata con un impiegato che aveva accettato di riconoscere il bambino. Rimasta vedova, dopo che l’attore era diventato famoso, si era rifatta viva per chiedere un aiuto per il figlio che secondo lei era identico al padre. Apparentemente burbero e distaccato ma in fondo generoso, Maugin decide di aiutarlo e di conoscerlo anche se non lo vede sempre volentieri.
A un certo punto Maugin decide di abbandonare le scene, lasciare Parigi, e trasferirsi in Costa Azzurra con la moglie e il figlio Baba. Oltre a voler ritrovare l’intimità con sua moglie, sembra volersi allontanare dalla diagnosi infausta del dottor Biguet. La vicenda si ingarbuglia sempre più, Maugin è costretto a tornare qualche giorno a Parigi per discutere con la sua casa cinematografica che vorrebbe fargli girare altri film. È qui che si svolge il drammatico finale che, come sempre, Simenon costruisce con maestria portandoci dentro la tragicità della vita a poco a poco, tirandoci dentro in un crescendo di suspense. Uno spaccato dell’epoca raffinato e impietoso, personaggi comuni che mostrano tutte le loro debolezze.