A commento della sua scelta di tre brevissimi scritti di Franz Kafka pubblicati ieri sul nostro sito, Giuseppe Genna ci ha fatto avere anche un breve testo sullo scrittore boemo, che siamo ben lieti di presentarvi.
Che cosa possiamo dire, che cosa possiamo scrivere ancora di Kafka? Più di quanto si è pensato e scritto, più di quello che si è voluto canonizzare a forza? Si è verificato un dispendio antikafkiano di parole e atti ermeneutici, per isolare lo scrittore praghese (praghese? O tedesco o austriaco o mitteleuropeo o cosmopolita o universale?) in una figurazione definitiva e definitivamente deflagrata del successo letterario e umanistico, grazie a cui le stente righe dei racconti e dei cosiddetti romanzi (romanzi?) avrebbero imposto una norma del dire, del pensare, del fare. Il Novecento è in grande parte Kafka e su ciò non sembra nutrire dubbi anche l’ultimo degli interpreti.
Ciò che colpisce è tuttavia il fallimento di Kafka, ovvero il suo compimento: chi ha imitato Kafka? Qual è il nome della sua continuatrice o del suo continuatore? Come si disarma la macchina narrativa kafkiana, quell’inattesa comorbilità tra scrittura e patologia logica, che ha istituito appunto un canone con un unico canonizzato, quasi che si potesse esaltare la santità attraverso un solo santo? Kafka è lo scrittore degli scrittori, così come Francesco il santo dei santi? Quale chiesa è chiamato a ricostruire il dolicocefalo che spira a Kierling?
Non vedo disponibili a una simile opera strutture templari, che possano accogliere le sue spoglie o essersi erte grazie al suo scalpellare stilisticamente incongruo, nonostante Kafka abbia affrontato un po’ ovunque la templarietà stessa. Profano rispetto all’agglutinarsi della proiezione che crea l’impressione del sacro, iconoclasta che distrugge qualunque rapporto col simbolico ma soltanto eiettando senza requie infiniti simboli, tutti emittenti un’indecifrabilità cinese o anticoegizia, Kafka è anzitutto il suo impatto. Cosa avvertiamo noi, che lo leggiamo a distanza di tempo e spazio, nonostante i tentativi forzosi di spiegare o contenere quell’impressione istantanea e preverbale, con cui le sue narrazioni e i suoi finiti aforismi danno il colpo all’occipite e all’osso frontale e allo sterno e alla vista di chi entra in contatto con loro – pronome che vale per persone, precisamente, e non per entità disanimate?
Il fenomeno della vita vivente in Kafka sta tutto lì: fermarsi a sentire il sordo trauma, il rimbalzo decisivo che impone indistinguibilmente la sua prosa quanto il suo esserci, il suo esserci stato in carne e ossa, feribile, dentro una vita attentabile. Per essere colpiti, dobbiamo in qualche modo avere bloccato, anche del tutto vanamente, il colpo stesso: avevamo un occipite, avevamo uno sterno, un tessuto cardiaco, un’epidermide, sbrecciati dalla forza del proiettile.
È questa traumatologia kafkiana che da decenni non sembra più perseguita, letterariamente, letteralmente, dagli autori che modulano le lingue occidentali e stanno risultando progressivamente incapaci di vita onirica e di vibrante ipersensibilità agli spigoli della realtà che essi stessi sono e che preme loro addosso. (Da questo punto di vista, che è molto laico e intollerabilmente idiosincratico, ravvedo nel Don DeLillo successivo a Underworld il continuatore, l’erede incerto e schivo, l’equivoco ambulante che batte le suole su quella via dei canti in pieno deserto, che Kafka ha descritto attraverso pavimentazioni borghesi e nevi, doline terragne e superfici fluviali). Il mondo si solleva in Kafka a mostrarci il pugno e a colpirci in piena fronte! Come si potrà restare esanimi, davanti agli esclamativi, a cui è abolito l’utilizzo del punto esclamativo? Kafka statuisce una nuova sintassi universale? La sua parola abolisce l’oralità, anche quella intrapsichica? Come possiamo persistere, abbandonati da subito e per sempre, senza madri né padri, in questo attentato kafkiano al mondo? Era dunque un Gavrilo Princip qualunque? E’ sempre una guerra mondiale novecentesca a rimbombare nelle fumisticherie essenziali di questo ipocondriaco, che ha ben ragione di temere la propria malattia?
Subiamo il colpo. Chi siamo, mentre il colpo impatta su di noi, in noi?
Le sue parole sembrano leggibili e non lo erano: non ci sono nell’istante in cui ci colpiscono.
Continuare a vivere, dopo quell’impatto, è leggero e illusorio, per quanto squallido e comune.
Leggerlo significa dimenticare all’istante che lo si stava leggendo, che lo si è letto.
Qualunque atto di amore è postumo a quell’impatto.
La sua leggenda deve finire immediatamente: immediatamente!