Nicolas de Staël, Tutto deve accadere dentro di me, a c. di Lucetta Frisa, Via del Vento Edizioni, pp. 44, €4,00
recensisce ELIO GRASSO
Pittore in Marocco. 1936. Cosa ci fa un ragazzo (o poco più) di Pietroburgo a Marrakesh, occhio vigile e innamorato dei colori surmoltiplicati dai 48 gradi all’ombra? Quanto può valere il suo diario, incantato di nostalgia veggente, dentro il grande numero di scrittori e artisti che nel Novecento sono stati affascinati dagli spazi, dai muri e anfratti della kasbah, dalle spezie, dalle donne e dalla droga locale?
Leggere i frammenti, scelti e tradotti da Lucetta Frisa, non permette agevoli risposte, ma attiva celeri interessi e impressioni corsare balenanti di colori puri e saturi almeno quanto i dipinti di questo Nicolas giramondo dallo sguardo limpido e tranquillo. Le donne sono belle, fanno l’amore di notte e mercanteggiano pecore di giorno, gli uomini appaiono meno attivi e tracannano tè, la polvere satura il paesaggio e lo rende iridescente, le pitture murali sono pressoché inimitabili, mentre lui dipinge e scrive senza sosta. Le lettere ai familiari hanno toni sereni, l’artista sembra restare in disparte, non ci sono episodi di intrecci con la comunità ma molte eccitazioni sensoriali. Lo stile nordafricano, un po’ minaccioso se descritto da Paul Bowles, giunto in quei luoghi pochi anni prima, qui manca.
Ma la ricerca di de Staël evidentemente è altrove. La manualità che serve a tracciare i colori allontana l’attenzione aguzza dello scrittore, ovvero l’artista stesso diventa parte del paesaggio saturato di luce (e forse di kif) mentre mescola i suoi pigmenti. La molta luce, a suo vedere sempre troppo poca, s’incolla con avidità ai quadri, alcuni dei quali (splendidi) sono riprodotti nel volumetto. Ma sono opere degli anni successivi, dunque privi di spazi africani: le forme diventano estensioni di colore puro, prive di particolari, se non fosse che i titoli attribuiti rimandano a luoghi precisi, essenzialmente europei.
De Staël ha avuto imperiosi smarrimenti dentro l’ossessione coloristica, durante e dopo il giovanile credo estetico: Tutto deve accadere dentro di me. Scrivendo al padre questa frase pose il sigillo di una vita trasportata da Pietroburgo alle terre più luminose del Mediterraneo, fino al lampo finale dalla finestra di una casa ad Antibes. Vi si gettò nel 1955, quando la sua fama si stava espandendo. L’apparente equilibrio giovanile del diario sembra sia stato spezzato negli anni della maturità, forse il troppo guardare sfianca i confini, fa travisare le distanze, così come non c’è distanza geografica nei suoi dipinti: ma una grande diffusione del colore, chiaro segno di allargamento dello sguardo assoluto. Una logica percettiva dal destino irrevocabile, come scrive Frisa nella postfazione: «Ha fiducia in una logica totale che, nella sua assolutezza, tende all’illogico».
Ma intanto possiamo leggere questi frammenti, tratti da raccolte pubblicate postume dal figlio, come piccoli prodigi apparsi fra una tempesta di sabbia e l’altra. Alimentando ancora una volta il nostro continuo desiderio di un altrove scomparso, africano, le cui vestigia ormai ritroviamo soltanto in artisti e scrittori d’Ottocento e Novecento.