Boris Pasternak, La notte bianca. Le poesie di Živago, tr. Paolo Ruffilli, Biblioteca dei Leoni, pag. 96, euro 12,00 stampa
Quanta emotività ha suscitato Živago dagli anni ’50 in poi? Le vicissitudini del manoscritto, nell’era della Cortina di ferro, dell’autore preda di oscure trame politiche e spionistiche, di Feltrinelli che si batte e riesce a pubblicarlo (con varie disavventure raccontate molto bene dal figlio in Senior Service), del film diretto da David Lean (specialista del genere) uscito nel 1965 e che ha strappato tonnellate di lacrime a fanciulle e combattenti della sinistra italiana (Palombella rossa di Moretti ironicamente batte su questo tasto), tutto ciò, e altro ancora, ha contribuito a dirottare il grande poeta moscovita in una specie di landa viziata e che ben poco gli rende giustizia, nonostante poeti come Cvetaeva e Achmatova lo mostrino come un grande genio della poesia russa, e critici come Poggioli e Ripellino ne sottolineino l’inusitato spazio magico e la grandezza di creazione.
Alle poesie contenute nel romanzo si rivolgono queste personalità della letteratura, e a queste poesie è dedicato il lavoro di traduzione di Paolo Ruffilli presentato nel volume. Ne La notte bianca sono comprese poesie appartenenti al romanzo di Pasternak, quelle che ripercorrono l’intera vicenda di Jurij, il protagonista del Dottor Živago. L’alter ego di Pasternak assume l’originalità come intera carica spirituale, direttamente giunta dalla storia umana. È il linguaggio a farsi carico di avvenimenti personali e imperiosamente popolari, dentro a un Novecento che si è impadronito di tutto, travolgendo Russia e Europa al prezzo di rivoluzioni sciolte nel sangue, e di guerre miranti al cuore della specie.
Leggere oggi questi versi, tratti dal contesto romanzesco, attiva aspre e sottili sensibilità e corrispondenze, incanti (e disincanti) fino a ieri interrati dentro a poetiche talvolta asettiche. La traduzione di Ruffilli conserva eroicamente un certo metro (descritto con precisione in sede introduttiva), una linearità “presa a misura” dell’esistenza russa (spesso perduta nelle versioni nostrane), che ci trasporta in fondali paesaggistici e morali di rara efficacia. E che esprime come la semplice spiritualità, derivante direttamente dai maestri Dostoevskij e Tolstoj, si unisca ai riferimenti evangelici del Cristo e della Maddalena in un riverbero che ci scopre quasi inadatti a reggerne il dramma.
Dall’amata Mosca alla Gerusalemme dell’anima, attraversando steppe e deserti, la poesia di Pasternak-Jurij mette in modo dinamiche esistenziali dentro al racconto millenario riverberato fino a noi. Ma è la potenza espressiva del poeta, qui trasposta, a consegnarci la forza di una memoria generazionale un tempo nostra ma pressoché perduta. Lo scintillio della natura intorno a città e paesi, russi e mediorientali, riesce a rischiarare sguardi al limite della cecità. Per questo la lettura riporta in luce ispirazioni e lucidità poetiche trascurate in modo imbarazzante da chissà quanti frequentatori di facili seduzioni egoistiche.
Piacerebbe che Živago si tirasse dietro soprattutto questi versi sicuramente trascurati nell’epopea emozionale esplosa nella metà del secolo scorso. E dunque oggi, lontani dai travisamenti di marca hollywoodiana (nei territori di Via col vento), dagli schemi interpretativi alimentanti il «caso Pasternak», e dal bando imposto ai documenti che lo riguardavano, si può chiudere un cerchio, aperto mezzo secolo fa e forse tuttora non del tutto compreso. Un cerchio in cui la poesia di un poeta che fora la notte con i propri occhi, e varca i confini di Mosca e della Russia, porta con sé il lascito della necessità dello scrivere.