Gina Berriault, Piaceri rubati, tr. Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Mattioli 1885, pag. 208, €14,00 stampa
recensisce ROBERTO STURM
La casa editrice romagnola continua a stupirci: la foto in copertina di Piaceri rubati è davvero notevole, una vera opera d’arte in linea con la straordinaria qualità grafica cui siamo abituati. Non è neanche da sottovalutare la qualità dei testi proposti: oltre ad aver portato in Italia Andre Dubus, uno dei più grandi scrittori di short stories, ci ha fatto conoscere autori del calibro di Don Robertson e Charles Baxter, che ci hanno regalato vere e proprie perle letterarie. Un plauso dunque a Mattioli 1885 per il lavoro di ricerca di testi che, senza di loro, non sarebbero forse mai approdati nel nostro paese.
La curiosità verso questa prima pubblicazione italiana di Gina Berriault (1926 – 1999) è nata dal comunicato dell’ufficio stampa della Mattioli: gli undici racconti di Piaceri rubati sono stati definiti da Andre Dubus, Richard Ford e Richard Yates come scritti da una delle migliori autrici americane. Non sono nomi qualsiasi – tra l’altro sono tra i miei scrittori preferiti –, per cui non ho potuto fare a meno di leggerli.
Nel 1996, un’antologia in cui erano inseriti anche questi racconti, ha vinto tre importanti premi letterari in America: considerata dalla critica, amata dagli scrittori, Gina Berriault non ha mai avuto un grande successo di pubblico. Una delle ragioni plausibili, ipotesi che formulo dopo aver letto il libro, è che questi racconti sono stranianti: lasciano al lettore un senso di angoscia, scoprono senza pietà vite apparentemente comuni che nascondono baratri di indifferenza, macerie di mondi interiori. L’incomunicabilità di sentimenti che traspare è assoluta, le sensibilità sono nascoste da una freddezza utilizzata per difendersi dall’esterno.
L’asprezza della scrittura riporta allo stile micidiale di Fleur Jaeggy, le situazioni vissute dai personaggi ai racconti impietosi di Carver. Ma Gina Berrault ha uno stile peculiare, tutto suo, che la porta a descrivere minuziosamente gli stati d’animo dei protagonisti, i loro gesti, a delineare in maniera precisa l’ambiente che ospita la scena, a scrivere dialoghi duri con parole che pesano come macigni. È un mondo senza compassione quello che ci descrive, in un’America che sta perdendo il proprio sogno e quello della maggior parte delle persone che ci vivono. Emarginati o ai margini di una società che li esclude, che preferisce non comprendere e non indagare piuttosto che trovarsi di fronte a un problema da risolvere, a un’esistenza da risollevare.
Che si tratti di un senza tetto che frequenta una biblioteca, di un uomo che torna a vistare i genitori separati dopo anni di lontananza, di un anziano che esce di casa solo con un po’ di bagnoschiuma addosso per minacciare una donna, della ricerca, da parte di uno scrittore, di un fantomatico e famosissimo personaggio, di un bambino che uccide fortuitamente il fratello maggiore non ha troppa importanza. Sono (siamo) tutti disperati, chiusi in una realtà personale che ci impedisce di scorgere i particolari più intimi di chi ci troviamo di fronte: partner, genitori, figli o amici che siano. Eppure basterebbe poco, sembra volerci dire l’autrice, per tirarli fuori dall’inferno, magari ascoltare con più attenzione. Ma nel libro, come spesso nella vita, non accade mai.