Gino Vignali, La chiave di tutto, Solferino, pp. 240, euro 16,00 stampa, euro 9,99 eBook
Grand Hotel di Rimini, Fellini osserva divertito. Tutto quanto ricostruito nel «suo» teatro di posa (il Cinque) a Cinecittà. Verità? Finzione? Chissà. La chiacchiera sosta in un angolo, le maschere, i mostri, il divertimento e i paparazzi restano in disparte. E sotto una neve che sembra quella di Amarcord – ma qui siamo di fronte alle lunghissime spiagge romagnole – prende avvio il romanzo di Vignali. Un giallo, un noir, che dir si voglia, messo nella mani questa volta di un investigatore femmina, il vicequestore Costanza Confalonieri Bonnet: bella, fondoschiena strepitoso su cui stringono le telecamere per la gioia dei social, aristocratica, talvolta antipatica, spesso invece il contrario.
Ma lei abita, causa vicissitudini spiegate sì e no, in una suite del Grand Hotel. E lì intorno, in pieno inverno, si ritrovano cadaveri, uccisioni spietate secondo le leggi auree della narrativa «pulp», o (come è di moda dire) di genere. La chiave di tutto (Inverno) è il tomo inaugurante di una quadrilogia (uno per stagione) nata dalla penna (corrisponde a verità, l’autore scrive sui Moleskine) di Gino Vignali, proprio lui, il Gino della ditta Gino & Michele (Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano). Un giallo prodotto e ambientato nella Rimini vista come una Miami adriatica, bella e desolata nel pieno dell’inverno.
Intorno alla Confalonieri Bonnet circolano personaggi immersi in una bolla ambientale il cui mito non si è mai spento, lì Fellini ha creato una specie di casello autostradale fra realtà e fantasia (sono parole di Vignali). Ironia e battute strappano il sorriso in ogni capitolo, il principale personaggio femminile viaggia sul filo dell’insofferenza, con teneri imbarazzi di marca provinciale, ma riesce ogni volta a salvare pelle e carattere, suo e del romanzo. Viscerale, cinematografico senza mezzi termini, alle prese con una storia molto poliziesca e molto carica di colpi scenici.
Certamente la carriera di Vignali e il suo mestiere (gran lettore di gialli) gli permettono di caricare il racconto di delizie più o meno vere più o meno inventate, i particolari fanno stare sulle spine, forse lo stesso autore ne ha subìto le conseguenze durante la stesura e l’editing. A un certo punto compaiono tipi spietati, killer provvisti di tatuaggi d’inquietante marca «russa», ma nella Chiave di tutto ogni situazione si avvale dello sguardo pungente del vicequestore, che pur vagando nella nebbia riminese non si lascia invadere dall’astrattezza: avrà pure un corpo da far girare la testa a colleghi e giornalisti, ma riesce a tenere in pugno il senso di quel che Vignali ha preparato per lei.
Questo è uno di quei romanzi in cui sembra che il protagonista guidi storia e intenzioni (effetto non nuovo, Camilleri docet), dunque all’autore resta gratitudine per l’intraprendenza del suo «primo attore» gettando nel libro, in pasto a chi guida l’azione con tanta sollecitudine, tutti gli appunti dei suoi taccuini. Diventerà una griffe? Probabile. Se è vero che Rimini è una delle città più violente d’Italia, nonostante la fama di stazione balneare tra la favola e il rito annuale dei gitanti come orde che divorano ogni cosa, Vignali tira il fiato sulle fantasie felliniane più sospette (Fellini: «Non so se i miei ricordi sono veri o falsi, sospetto però che siano in gran parte inventati…”), sulle cialtronerie che ci hanno accompagnato per più di mezzo secolo. Ecco l’importanza delle facce, come assistere ai mitologici provini del regista.
Tutto è immerso nel carico micidiale di un’attualità vitrea, per niente allegorica, messa di peso nella sceneggiatura di una serie in stile Netflix. Dopo aver letto questo giallo ci attacca la voglia di conoscere Costanza Confalonieri, non soltanto per via della figura stellare («mi sono ispirato alle donne disegnate da Manara»): lontana dallo stereotipo del poliziotto sfigato e puzzolente di tabacco, dotata di cultura e ironia aggiornate, dirige una corte di personaggi ispirati a gente di spettacolo in odore di simpatia e popolarità. Nonostante il cinismo professionale di Vignali, nel romanzo la commedia non è nascosta e vi si respira una cert’aria struggente e malinconica, quella che prende ai tramonti di fine stagione sui moli delle città balneari: «Il mare d’inverno…»