Non si capisce cosa sia stata la felicità in Albania, leggendo e rileggendo il romanzo d’esordio di Ornela Vorpsi: anno 2005 e sembra ieri. Un decennio e poco più, e ci chiediamo quanto sia cambiata l’Italia, sconsideratamente in peggio, rispetto al paese che ci sta di fronte. Le persone del racconto vivono immerse in un catalogo d’impagabili vessazioni mentali (e fisiche) come quella in cui si afferma che le ragazze sono puttane soltanto perché hanno bellezza e cosce, e magari leggono libri. L’io narrante, femminile, sfida campioni di robustezza (che dunque non muoiono «mai»), i familiari dalla colonna vertebrale di ferro. Si capisce che legge, che guarda, provocando la madre e le madri, mentre sente germogliare la propria bellezza, gran esempio di «puttaneria», poiché tutti sanno che «una ragazza bella è troia, e una brutta – poverina! – non lo è».
Nei primi anni 2000 leggere robe simili sembrava una sorta di ardito avvicinamento a confini bislacchi, estranei, pure pericolosi, peggio dell’entrare a Livigno, e dunque in Svizzera, negli anni ’50. Possibile che in quel paese la Madre-Partito definisse puttane le proprie figlie e quelle incinte «donne chiavate nei cespugli»? Così come pareva strano a noi meridionali d’Europa assistere a certi discorsi omofobi in chi sapeva fabbricare cioccolate da sogno. Era l’Albania. Ed era la Svizzera.
Ornela, mancando di peli sulla lingua, sapeva descrivere grandi escalations di rancori familiari e assassini a regola d’arte dentro le carceri di stato. Si veniva rinchiusi per aver letto Bel ami e Guerra e pace, o aver accarezzato cartoline postali italiane. E poi il sesso, visto come esalazione pericolosamente femminile, solo per il fatto di avere quella cosa lì fra le gambe, bambina o adulta che si fosse. Andando avanti a leggere si ci chiedeva in che paese fosse cresciuta questa scrittrice. Misteri albanesi.
La genetica dello Stato fin dentro le ossa di un popolo, con l’avvenenza spesso violata da padri cerberi e militari ottusi, un regime che vieta la civiltà prima e dopo la diaspora, fino a quando una donna prende fra le mani la durezza patita in gioventù – e la scrive. Tutto diventa un intreccio di storie dell’altro mondo. Ancora oggi si entra nei capitoli del libro come a uno zoo scalcinato e vietato ai minori, quando gli stessi adulti dovrebbero essere presi per il bavero e stesi. La ricchezza linguistica di Ornela ebbe subito molto successo, le valse stima critica nonostante l’oscuro tema trattato, ma erano ancora tempi in cui le digressioni letterarie (e umane) non erano considerate già aggressioni.
Si tratta di vedere come verrà presa questa importante riedizione: scrivere oggi di sparizioni, di livelli inferiori di umanità, di brutalità maschile, di educazione sentimentale in mezzo a ferro e fuoco, di matriarche non meno feroci degli uomini, di regioni fangose e ambienti polverosi, da parte di un’appartenente alla generazione d’immigrati, per giunta intellettuali, non sono sicuro che abbia l’identica accoglienza di un decennio fa. Ornela oggi vive a Parigi, scrive in francese, dipinge e fotografa nudi antichi (i peli pubici non mancano mai) e bellissimi come fossero modelli di Courbet, e questo vorrà dire qualcosa. Per parte mia, penso che lei sia stata la capofila di un evento epocale (insieme ad altri scrittori e poeti qui approdati e conosciuti di persona) oggi angosciosamente in primissimo piano per chi vede e sente senza mezzocchi e mezzorecchie.