Vladimir Sorokin, Manaraga. La montagna dei libri, tr. Denise Silvestri, Bompiani, pp. 224, euro 17 stampa, euro 9,99 ebook
recensisce PAOLO SIMONETTI
Era dai tempi di Fahrenheit 451 che non si bruciavano così tanti libri in un romanzo.
Nel 1953 Ray Bradbury aveva immaginato un futuro in cui i pompieri fanno irruzione nelle case dei sovversivi per dare alle fiamme ogni libro, giudicato illegale; l’autore intendeva metterci in guardia sui pericoli della direzione che avevamo imboccato – sempre più incapaci di pensare in modo indipendente, lobotomizzati dallo schermo televisivo, irrispettosi nei confronti della carta stampata e disabituati alla lettura. Il nostro presente non è poi così diverso, anche se invece di bruciare i libri tendiamo a disfarcene (escluso chi scrive) per sostituirli con dati scaricati su un supporto digitale. Ma il prossimo futuro, descritto da Vladimir Sorokin sessantacinque anni dopo Bradbury in Manaraga. La montagna dei libri è, se possibile, ancora più inquietante. E grottesco. I libri vengono bruciati, ma di nascosto, e per cucinarci sopra delle leccornie che solo i più ricchi possono permettersi. In una società in cui l’unica cosa che si continua a stampare sono le banconote (ma “a differenza dei libri, i soldi bruciano male”, quindi non sono adatti per cucinare), i volumi sono diventati pezzi da museo – le prime edizioni dei grandi autori del passato sono ricercatissime come “ciocchi” indispensabili per il “book ‘n grill”, un rituale che solo gli “Chef” più abili sanno celebrare.
Quella degli “Chef” è una sorta di casta segreta a cui appartiene il narratore e protagonista del romanzo, il trentatreenne Géza, nato a Budapest “da una famiglia di ebrei bielorussi e tatari polacchi”, che ha fatto carriera come rinomato “Chef” specializzato in classici di letteratura russa. Brandendo la sua “Excalibur”, una “striscia metallica speciale a forma di spada” che ogni “Chef” si fa forgiare su misura e che serve a garantire una buona “lettura” – ovvero a impedire che il libro arda in una sola fiammata, che alcuni fogli si liberino dagli altri svolazzando via bruciacchiati, o anche a evitare che durante la cottura si sprigioni troppo fumo o che brandelli di cenere finiscano sui commensali che hanno pagato profumatamente per godersi lo spettacolo prima di assaporare il cibo cotto sui classici – Géza trascorre la vita spostandosi in tutto il mondo per offrire ai suoi clienti una bistecca di manzo con L’adolescente di Dostoevskij o un carré di agnello con Oblomov di Ivan Goncarov.
Grazie a una rete sotterranea di contatti formata da antiquari senza scrupoli e spietati delinquenti pronti a tutto, Géza riesce sempre a procurarsi qualsiasi “ciocco” gli venga richiesto dal cliente. Non si ferma troppo a riflettere sul senso della propria vita, che scorre via frenetica tra aeroporti e “grigliate”, ordinazioni su prenotazione, grosse somme di denaro che passano di mano e, ogni tanto, una riunione nella sede centrale, la “Cucina”, a cui ogni “Chef” deve necessariamente partecipare.
Proprio durante una di queste riunioni viene annunciato che qualcuno sta introducendo sul mercato una grossa tiratura di prime edizioni contraffatte di un classico della letteratura, mettendo a repentaglio l’attività degli “Chef”. Il piano sembra studiato alla perfezione, perché si tratta di un libro dal titolo significativo, Ada, o ardore, scritto da un autore “trasversale”, che per ovvie ragioni viene “letto” da “Chef” di specializzazioni diverse: Vladimir Nabokov, scrittore russo trapiantato negli Stati Uniti, che ha scritto Ada in inglese mentre si trovava in Svizzera. Un libro, tra l’altro, ambientato in un mondo parallelo, un’“Antiterra” non troppo dissimile da quella di Manaraga, e che nel titolo originale gioca sulla quasi totale omofonia tra il nome della protagonista e la parola “ardor” (in russo, inoltre, “Ad” significa “inferno”, che rimanda all’italiano “Ade”). Urge fermare al più presto questa stamperia clandestina, che si nasconde sulla vetta del monte Manaraga, negli Urali Settentrionali. Toccherà proprio a Géza indagare sulla faccenda e neutralizzare il falsario.
Questa la premessa del romanzo, che si snoda attraverso le pagine di diario scritte dal protagonista. Grazie alla sua voce ondivaga, colloquiale, e a una serie di digressioni e “storie nella storia”, riusciamo a cogliere sprazzi del mondo in cui vive Géza: un “nuovo Medioevo” devastato da una guerra religiosa che ha visto sconfitti i mujaheddin ma che ha sconvolto l’ordine politico e sociale così come lo conosciamo. En passant si viene a sapere che Proxima-B è il pianeta “al quale sono legate le ultime speranze dell’umanità”, ma a questo tema non viene più fatto cenno.
La tecnologia ha raggiunto livelli superiori al nostro: gli smartphone sono stati rimpiazzati da “pulci intelligenti” che si impiantano nel cervello e “guidano” la persona come un navigatore o una ricerca su Google. Il protagonista ne ha tre, costosissime: quella rossa lo “inserisce nel tempo” e lo “rende più intelligente”; quella blu è “di navigazione”, mentre quella verde è “comunicativo-informativa” – tutte e tre lo avvertono dei pericoli imminenti, gli forniscono qualsiasi tipo di informazione di cui abbia bisogno, e senza di loro – come noi senza il cellulare – Géza si sente perso, inetto, impotente. Anche la scienza molecolare ha fatto passi da gigante e così ognuno, pagando la cifra giusta, può rifarsi completamente i connotati, persino diventare identico a Tolstoj e vivere in una villa classica indossando abiti del diciannovesimo secolo, come fa il cliente che chiede a Géza di cucinare tre polpette di carote con il manoscritto che ha appena finito di scrivere, un racconto di Lev Tolstoj intitolato, appunto, Tolstoj.
Manaraga è un libro geniale, surreale, irriverente e spiazzante; crudele come (per chi scrive) la vista della prima edizione di Moby-Dick che brucia sotto gli occhi di qualche ricco e volgare affarista con l’acquolina in bocca nell’attesa di gustarsi la bistecca di tonno; folgorante come le fiamme che divampano dalle opere su cui si fonda la nostra civiltà; traditore come, nel romanzo, la copia della prima edizione del Maestro e Margherita di Bulgakov, le cui pagine centrali, inumidite, rifiutano di bruciare (ci avrà messo lo zampino il gatto Behemot), costando a Géza una dolorosa punizione; persino, a tratti, umoristico come le pulci intelligenti, che alle minacce bonarie del loro “signore e padrone” di gettarle nel water rispondono: “Faccio un tuffo, mi riprendo e torno!”
Alla fine il dubbio rimane: è peggio temere che i libri, e ciò che rappresentano, vengano bruciati in nome di piaceri effimeri – ma sempre più spettacolarizzati dai media – come i piatti preparati da chef stellati, o che (come sta succedendo oggi) finiscano anch’essi nel water, dove l’acqua può certo salvare dal fuoco, ma finisce per spegnere ogni ardore letterario, fa sbiadire l’inchiostro sulla pagina, fa dimenticare ciò che invece sarebbe bene ricordare? A differenza delle pulci, i libri non torneranno.