Henry Forge è solo un bambino quando la sua vita cambia per sempre. Dopo aver assistito all’addestramento di un cavallo da corsa, questo rampollo di un’antica e arrogante famiglia dell’aristocrazia terriera del Kentucky non ha più dubbi: la fattoria dei suoi avi lascerà il posto a una scuderia di purosangue. L’ossessione di Henry, creare il cavallo perfetto: una bestia che corra come nessun’altra prima.
C’è una coppia di termini omofoni alla radice di questo ponderoso, magnifico romanzo di C. E. Morgan: race, inteso come “corsa, gara”, e race, nell’accezione di “razza”, con tutta l’implicita gerarchia biologica che la parola sottintende. Da un lato, le corse di cavalli del Kentucky Derby (e non solo), lo “sport dei re” che raccoglie tra gli astanti il meglio della decadenza pseudo-nobiliare del Sud – quella che Hunter S. Thompson definì «atavistica cultura condannata». Dall’altro, la selezione artificiale e maniacale dell’allevatore; ma anche la terribile eredità che schiavitù e razzismo hanno lasciato a uno stato che, fungendo da cuscinetto tra unionisti e confederati durante la guerra civile, era di fatto l’ultimo avamposto del Sud.
Oltre il fiume Ohio, Cincinnati, città che in Lo sport dei re viene dipinta coi contorni mitici di un luogo leggendario, lo stesso che Scipio, antenato dell’inquieto stalliere dei Forge, Allmon, raggiunge nella sua disperata e spietata fuga da fruste e catene. La sopravvivenza bestiale degli ultimi contrapposta alle esistenze barocche dei primi; l’intreccio spesso perverso di selezione naturale (continuamente evocata dalle epigrafi tratte da L’origine della specie), allevamento ed eugenetica, ciascuno con il suo inevitabile carico di morte e crudeltà.
“I morti diventano storie per continuare a vivere”, scrive Morgan, suggerendo con il suo romanzo come queste stesse storie abbiano il potere di decidere della dannazione o della salvezza di ciascuno. Narrando avvenimenti che vanno dalla fine del Diciottesimo secolo ai primi anni Zero, la scrittrice si confronta con il classico romanzo genealogico della tradizione del Dixieland, utilizzando il cinico Henry Forge come perno, ma aprendo a un ampio ventaglio di personaggi memorabili, primo fra tutti il fantino-fool Reuben Bedford Walker III, mattatore indiscusso dell’ultima sezione del romanzo.
Un libro florido come i paesaggi del Kentucky che lo ospitano, nel quale la natura e gli uomini vengono trattati tanto con il linguaggio asettico della tassonomia quanto con un raffinato lirismo pastorale. Umanista e post-umanista allo stesso tempo, ché se la voce autoriale (complessa e spesso elusiva) sembra a volte tirarci verso lo sguardo gelidamente geologico di Henrietta, figlia di Henry, l’oggetto del narrare resta fermamente nei confini dei corpi, dei fluidi, della carnalità.
Morgan è una scrittrice ambiziosa, e non ne fa mistero. «La vita è breve», ha dichiarato, «voglio confrontarmi con l’arte di alto livello. Voglio anima. La grande letteratura scuote la mente e fa cantare il corpo. È una sensazione elettrica, inconfondibile». E Lo sport dei re non delude in questo senso. È violento e poetico, scioccante e delicato. La bellezza brutale delle corse di cavalli diventa il metro di misura di tutte le cose, un microcosmo nel quale va a rispecchiarsi la storia dei Forge e l’intera storia del Sud, insieme a tutto il sangue che queste hanno versato. Un romanzo destinato a lasciare un segno nella grande tradizione della narrativa del Sud statunitense.