Don Winslow sta al poliziesco e al noir contemporaneo più o meno come Stephen King sta all’horror e al thriller. Scrittori eponimi di un genere e di uno stile – merceologico ancor più che compositivo – ormai assurti al rango di Arconti del pantheon letterario: essenzialmente confezionatori di best-sellers di qualità. La loro enorme professionalità artigiana e il profondo radicamento nella cultura del loro Paese, gli Stati Uniti d’America, permette a entrambi di esaudire i gusti di un immenso pubblico senza mai venir meno alla qualità della narrazione e mantenendo quasi sempre un rigore sociale e talvolta anche politico che li rende ben accetti sia al lettore americano – arroccato nelle sue sempre meno solide tradizioni – sia a quello – probabilmente più sofisticato e, forse, ideologizzato – europeo e internazionale. I loro libri sono un po’ come i migliori blockbuster hollywoodiani: sappiamo già cosa ci troveremo e dove alla fine si andrà a parare, ma il meccanismo incalza con una tale cronometrica precisione, l’emozione fluisce con tale impeto, che ci lasciamo ugualmente avvincere dal gioco e – al 99 per cento – non ce ne pentiamo.
Forse proprio per questo fin troppo marcato stigma vincente Winslow non rientra del tutto nel catalogo noir. Una letteratura maledetta praticata da bastian contrari, comunisti, pervertiti e losers, smascheratori dell’American Nightmare. Gentaglia come Jim Thompson, che scandalizzava i bempensanti e pubblicava solo su paperback, non avendo accesso agli editori rispettabili, le sue storie di serial-killer impotenti, di madri incestuose e poliziotti criminali; come Elliott Chaze e i suoi angeli dalle ali nere; o come John D. MacDonald perso dietro a ex galeotti assetati di vendetta e sadici teen agers assassini. Winslow non ha il cinismo sistematico del marxista Dashiell Hammett, né l’amarezza irredimibile dell’alcolizzato Raymond Chandler, non ha la disperazione metafisica di Derek Raymond, né l’ironia tragica di Fredric Brown. Per Winslow non tutti gli sbirri sono figli di puttana, né tutti i criminali sono dei violenti. Il suo mondo non è davvero noir perché ancora vi sussistono, incerte ma presenti, le categorie del bene e del male (questo vale, mutatis mutandis, anche per l’horror di King: si pensi solo alle radicali differenze tra lo Shining letterario e la versione di Stanley Kubrick…). Un’ipotesi di redenzione rassicurante per i discendenti puritani dei Padri Pellegrini del Mayflower (ma, avrebbe puntualizzato Jim Thompson, il primo uomo impiccato per omicidio sul suolo americano fu proprio John Billington, uno dei membri fondatori della Plymouth Colony: America e assassinio coincidono da subito…).
Essenzialmente romanziere Winslow ha prodotto una lunga serie di cicli narrativi: i 5 volumi delle indagini di Neal Carey (London Underground e seguenti); la trilogia di Art Keller (Il potere del cane e seguenti); i due del detective-surfista Boone Daniels e La pattuglia dell’alba; le avventure di Ben, Chon e Ophelia, la più famosa delle quali sta all’origine di Le belve, noto film realizzato nel 2012 da Oliver Stone (film, devo però confessare, che ho profondamente detestato come quasi tutti quelli di Stone); le indagini di Frank Decker (Missing New York, ecc.); più una decina di romanzi senza protagonista fisso. Per la prima volta lo scrittore si è cimentato con Broken in una raccolta di romanzi brevi o racconti lunghi, quel formato poco praticato in Europa che gli statunitensi definiscono novelette o long short story. Il risultato è decisamente lusinghiero, in certi casi addirittura superiore a quello abituale del passo lungo o extra-lungo. Sei storie di valore e spessore diverso che spaziano dal capolavoro – “L’ultima cavalcata” – al meccanismo di alta precisione – “Broken”, “Rapina sulla 101”, “Sunset” – al molto divertente – “Lo zoo di San Diego” e “Paradise”.
Winslow gioca da maestro le solite carte del mazzo: il surf; la costa californiana; la frontera; gli scontri e talvolta gli incontri tra sbirri DEA e narcos; le crisi della mezza età; la malinconia; la vendetta. Ogni titolo potrebbe agevolmente trasformarsi, già così com’è, in un film o in una serie tv – e questa scrittura fin troppo cinematografica, che procede per stacchi e montaggi alternati, scandita da dialoghi secchi e brillanti, è – seppur piacevolissima – contemporaneamente un pregio e un limite. Anche i personaggi, per quanto tratteggiati impeccabilmente, sono quelli che ci aspettiamo: lo sbirro buono e quello cattivo, la bella della banda, il pivello che impara il mestiere, il delinquente perduto e quello redento, il reduce dall’Iraq ammaccato nel corpo e nell’anima, il vecchio segugio che si concede l’ultima caccia, e così via. Però Winslow ha il tocco magico e riesce a rendere credibili perfino i più abusati cliché, come quello del libro intascato sul cuore che devia la pallottola mortale – di solito è una bibbia, in questo caso, per fortuna, “l’edizione economica e piena di orecchie di Roderick Random” (Sunset). Tre omaggi dichiarati si distaccano dai molti impliciti: uno a Steve McQueen e al ladro gentiluomo e non violento dall’attore spesso fascinosamente incarnato, nel piacevolissimo “Rapina sulla 101”; uno a Elmore Leonard, nel più brioso e leggero “Lo zoo di San Diego”, il cui incipit è stato lodato da King (“Nessuno sa come ha fatto lo scimpanzè a prendere la pistola”: impossibile non pensare all’orango assassino del primo poliziesco della storia, I delitti della via Morgue di Edgar Allan Poe); uno infine a Chandler, il malinconico “Sunset”, in cui l’affascinante ma sordido villain Terry Maddux, rimanda esplicitamente al Terry Lennox de Il lungo addio.
Gli scenari spaziano dalla costa californiana e la San Diego, in cui lo scrittore risiede fino a New Orleans e perfino alle Hawaii (dove, in “Paradise”, ricompaiono i protagonisti de Le belve: Ben, Chon e Ophelia). La storia più bella però, dove Winslow prende apertamente posizione contro Trump e la sua politica razzista dei muri e dei campi di concentramento per migrantes, è ambientata al confine messicano sul corso del Rio Grande. “L’ultima cavalcata” è un grande racconto che, nelle mani giuste, potrebbe diventare davvero un grande film, il corrispettivo americano di quello che per noi – almeno per chi ha avuto la fortuna di vederlo – ha rappresentato L’ordine delle cose (2017) di Andrea Segre. Il tema è analogo: quando dalla massa anonima ci si sofferma su un singolo caso – una persona, un nome, una storia – il meccanismo si inceppa, l’ordine delle cose viene sconvolto: perché la massa anonima non è un gregge ma un insieme di persone, proprio come chi la pascola e la reclude. In questo caso le parti in causa saranno uno sbirro, già convinto repubblicano ed elettore di Trump, e una bambina messicana aggrappata alle sbarre di una gabbia. Il finale – amaro, ma non posso anticipare – non assolve neanche chi si è pentito e ha fatto il possibile per riscattarsi: certi errori sono irredimibili, e chi li ha commessi – essendo un uomo giusto – è il primo a eseguire la sentenza. La metafora del vecchio cavallo fedele sfiancato nell’ultimo galoppo fino alla morte – anche questo è un vecchio topos inflazionato del western, ma qui reso davvero poetico – è l’immagine dell’America attuale: finita, distrutta, non great again, ma impestata dal covid-19 e dai race-riots, schiacciata dalle proprie contraddizioni, spezzata come il titolo di questa raccolta.
Chiudiamo con un meritatissimo encomio finale ai due traduttori: Alfredo Colitto e il nostro Giuseppe Costigliola, che hanno brillantemente trasposto una lingua certo non facile e piena di slang e idioms. Un ottimo lavoro per un ottimo libro.