Cecilia Ghidotti, Il pieno di felicità, Minimum Fax 2019, pp. 218, euro 16,00 stampa
Dalle Sette matitine, Zecchino d’Oro 1991, ai Pulp e i National, passando per le Slits e Grimes: Il pieno di felicità di Cecilia Ghidotti è anche un “pieno di musica”, più che di libri, film o serie tv, in una sorta di basso continuo – per continuare con i riferimenti al linguaggio musicale – rispetto alle vicende raccontate. Non si tratta più, in senso tondelliano, di una colonna sonora, un concetto forse obsoleto nell’epoca di Spotify e delle playlist, bensì di un’emergenza sintomatica dei consumi culturali della protagonista, uno dei nuclei tematici più importanti del libro.
Il titolo stesso dell’esordio letterario di Cecilia Ghidotti, “il pieno di felicità”, è una citazione dalla canzone Sette matitine, ricordo d’infanzia che riemerge, a più di vent’anni di distanza, nel corso delle peregrinazioni della protagonista, tra la provincia di Brescia, Bologna, Torino, Coventry, Londra (con puntate occasionali nel resto d’Europa: anche queste, inevitabilmente, piene di concerti e festival). Queste peripezie sono costituite in larga parte dall’esperienza autobiografica dell’autrice: il doppio dottorato, prima a Bologna e poi a Londra, la scuola Holden frequentata a Torino, la vita a Coventry insieme a Simone, post-doc presso la vicina (eppure isolatissima) università di Warwick… In questo flusso, reso più rapsodico dalle frequenti e talvolta incontrollate analessi, sono presenti anche vari inserti funzionali, ma il loro peso, nell’architettura testuale, non è tale da giustificare un uso immediato della categoria autofiction – definizione peraltro inflazionata, oggi, forse anche per celare, almeno parzialmente, i suoi contorni più labili e sfuggenti.
D’altro canto, è proprio un aspetto proprio dell’autofiction, ossia il già citato interesse e coinvolgimento della protagonista nei gangli della produzione e, più in generale, dell’industria culturale a derivare, progressivamente, verso una narrazione che non è esclusivamente autobiografica, cogliendo e rielaborando al proprio interno anche alcuni importanti temi culturali e politici. Più che la Brexit, sullo sfondo di molti episodi, o l’interessante lavoro di scavo, scevro da pregiudizi di sorta, sui vari processi di gentrificazione incontrati lungo il proprio percorso, è attraverso la geografia culturale delineata e non di rado sofferta (dentro, come si può facilmente presumere, ma anche fuori dall’accademia, e più spesso sulla soglia tra questi due mondi) che si coglie il sottotesto del brano riportato anche in quarta di copertina: “A vent’anni quelli che ne avevano avuto la possibilità avevano barattato l’appartenenza a un posto con la prospettiva di fare esperienza dell’altrove. Noi eravamo cosmopoliti, europei, solidali, antirazzisti, pronti a pensare globally ma agire locally. Avevamo letto tanti libri e visto tanti film giusti. Noi […] ci saremmo aperti con fiducia al mondo che sicuramente sarebbe stato migliore della nostra provincia di origine. Poi dovevo essermi distratta e i primi iniziavano a tornare”.
Esplorando il lato oscuro di quella che con notevole sicumera è stata definita “generazione Erasmus”, Cecilia Ghidotti non rinuncia mai alla lucidità dell’analisi e all’emersione di una coscienza che non è mai falsa, poiché, tra le altre cose, continua a ribadire la propria esperienza di migrazione all in all privilegiata. Si tratta, soprattutto, di una consapevolezza retrospettiva grazie alla quale, leggendo il libro, si ride e si piange tanto, senz’avvertire alcun compiacimento e lasciandosi invece avvincere da una lingua che è media ma anche ludicamente sospesa tra italiano e inglese, e che rende bene l’immaginario sotteso dalla narrazione.
Infine, nel libro come nella vita, ci si lascia molto alle spalle, come testimoniano le pagine finali, nelle quali s’intravede, dopo tanto basso continuo, una possibile risalita. E che sia a bordo dell’unicorno a molla che domina la splendida copertina?